Silvio Berlusconi
L’intransigente purezza rivoluzionaria delle mie b…
Non discuto la Casellati Mazzanti Vien Dal Mare ma solo l’ipocrisia dei grillini e dei Travaglio e co. Io che non credo alle manichee divisioni tra tutti buoni da una parte e tutti cattivi dall’altra spero per le istituzioni che sarà un buon Presidente. Faccio sommessamente notare che dicevano “mai con Berlusconi” e che prima era inciucio ora, invece, è la vittoria della coerenza (parole di Di Maio). Io dico soltanto “benvenuti nel Paese reale”. Ora proveranno come sa di sale il pane della politica che spesso ti fa mangiare ciò che prima dichiaravi indigesto. E capiranno che per governare dovranno ingoiare tanti di quei rospi che Verdini e Alfano gli sembreranno delle principesse. Solidarietà anche ai sinistri sinistri col tre per cento o che hanno votato direttamente 5 stelle pensando di fare la rivoluzione d’ottobre e adesso si ritrovano con la commare di Ghedini alla seconda carica dello Stato, quella che si è assunta la figlia al Ministero della salute, per intenderci. È la politica bellezza, ma almeno finirete di passeggiarci sui cosiddetti con la “intransigente purezza rivoluzionaria” delle mie b…
La vera maggioranza…
Immaginate per un attimo che i protagonisti di questi ultimi anni della vita del PD semplicemente non esistessero.
Niente Renzi, Bersani, Speranza, Letta, D’Alema, Emiliano e co.
Comunque dovremmo discutere di questo PD, del suo ruolo, della sua funzione perché al di fuori di esso rimarrebbero comunque Grillo, Salvini, Berlusconi, Trump, la Brexit, l’Europa in dissoluzione, l’emergenza del Medio oriente e del nord Africa, il dramma dell’immigrazione, la minaccia del terrorismo, il dramma globale della povertà, ecc..
Perché l’aver voluto, giustamente, tenere aperto un partito riformista in questi anni è stata una scelta giusta.
Non a caso a noi guarda ancora oltre un terzo dell’elettorato italiano, siamo la prima forza politica della sinistra in Europa, nonostante tutto. Continua a leggere
Neostalinismo e vero autoritarismo culturale
L’opinione di Roberto Benigni sul SI referendum può legittimamente non piacere. È altrettanto legittimo dissentire come io dissento da quella di Fiorella Mannoia, di Alba Parietti e di Dario Fo che si sono pronunciati per il NO. Quello che trovo inaccettabile è accompagnare questo dissenso con considerazioni e veri e propri insulti che mettono in dubbio l’integrità morale e umana della persona per colpirne le opinioni. È un atto indegno, soprattutto se compiuto da chi, fino a ieri, ne aveva fatto uno dei campioni dell’antiberlusconismo salvo oggi attaccarlo perché sostiene un’opinione coincidente con quella del nemico n. 1 vale a dire Matteo Renzi. Dissentire e discutere sulle idee e sulle opinioni è il sale della democrazia. Mettere in discussione le persone solo perché non la pensano come noi è una forma abbastanza scoperta di stalinismo e di vero autoritarismo culturale.
Cinque anni fa la proposta di reddito minimo in Calabria
Pubblicato su “Il Garantista” del 16 novembre 2015.
Sono passati cinque anni da quando il direttore Piero Sansonetti (con al seguito un Davide Varì ancora “pischello” come dicono a Roma) appena giunto in Calabria, organizzò un convegno nel corso del quale Enza Bruno Bossio lanciò la proposta del reddito minimo in Calabria.
Allora non c’erano i cinque stelle in parlamento e il dibattito su questo tema era affidato ai pochi testardi che ci credevano.
La stessa Bruno Bossio non era ancora deputata ma soltanto componente della Direzione Nazionale del PD a trazione Bersani che sul reddito minimo aveva sempre dimostrato una certa freddezza.
Proporre il reddito minimo dalla Calabria governata da Giuseppe Scopelliti e in una Italia ancora dominata da Berlusconi sembrava, in effetti, un’utopia.
Eppure fu proprio in quei giorni di novembre del 2010 che cominciò lentamente una “lunga marcia” con la costituzione dei Comitati per il reddito minimo in diversi comuni calabresi, la raccolta di oltre 10mila firme a sostegno di una proposta di legge regionale di iniziativa popolare e il pronunciamento di numerosi consigli comunali. Continua a leggere
Leggere l’astensionismo
Sull’astensionismo che si è manifestato domenica scorsa credo che si debba rifuggire da analisi frettolose e superficiali.
Diciamo subito che in Italia l’astensionismo fa molto più notizia.
Nel nostro Paese, infatti, la partecipazione politica è sempre stata più alta sia rispetto al resto dell’Europa che degli USA.
Ma in quei paesi la politica è vissuta in genere con maggiore distacco senza che questo si traduca in forme di rifiuto delle istituzioni democratiche.
In Italia il calo progressivo dei votanti va avanti da più anni.
Domenica scorsa hanno inciso diversi fattori di carattere generale: il voto fuori da un turno nazionale e quindi scarsa attenzione dei media e la disaffezione verso la politica che viene percepita sempre più come incapace di risolvere i problemi della gente.
Accanto a questi ce ne sono di particolari, come il crollo del centrodestra e la stessa crisi dei M5S.
I loro elettori sono frastornati: i primi non ne possono più di una vicenda politica tutta avvitata attorno ai destini di Berlusconi i secondi sono delusi dalla assoluta inconcludenza di una forza politica che, pur avendo eletto 140 parlamentari, non riesce a cavare il classico ragno dal buco.
Questo dato ha pesato soprattutto in Calabria, dove la tradizione astensionista si è sommata alla debolezza della proposta politica del centrodestra e dei cinque stelle. Accanto a ciò un diffuso sentimento di sfiducia che ha accompagnato queste elezioni regionali non solo nei confronti della classe politica ma della stessa speranza che le istituzioni democratiche possano essere in grado di risolvere i problemi di questa terra. Un sentimento pericoloso, i cui esiti, comprendiamolo bene, non potranno certamente essere forieri di “magnifiche sorti e progressive”, ma di un ulteriore degrado della vita pubblica.
A questo pericolo dovrà dare una risposta la sinistra calabrese, oggi chiamata a responsabilità di governo.
Il veleno dei populismo e le liste bloccate
Il problema non è affermare una repulsa moralistica dell’incontro con Silvio Berlusconi.
I pistolotti moralistici li lascio tutti ai giustizialisti di professione che, a dire il vero, oggi vedo assai disponibili a concedere a Renzi ciò che non hanno concesso ad altri esponenti del centrosinistra negli anni passati.
Né c’è da scandalizzarsi che l’incontro si tenga nella sede del partito, salvo rilevare che questa va bene come set di una fiction mediatica mentre non va bene per tenervi le riunioni degli organismi.
In una democrazia normale è naturale che i leader di grandi partiti contrapposti si incontrino per definire le regole della contesa e lo facciano nelle sedi dei partiti.
Il problema è che questo incontro avvenga, nei fatti, sulla base di una visione sostanzialmente comune, quella cioè di una leadership che pretende di esaurire in sé la stessa funzione delle istituzioni della democrazia parlamentare.
Al di là dei modelli elettorali che, com’è noto, sono solo un primo passo per la soluzione di problemi ben più profondi del sistema politico italiano, Berlusconi e Renzi condividono una concezione populista che si illude di poter ridurre la politica al semplice esercizio della mission of leadership.
Per questi motivi la base vera del loro accordo è costituita dalle liste bloccate nell’illusione (Berlusconi lo sa bene perché ci è passato, ma a quanto pare non ha imparato) che “nominare” i parlamentari eviti a loro il “fastidio” di fare i conti con rappresentanze e territori e li metta al riparo da ribaltoni e trasformismi. La storia di questi anni, com’è noto, dimostra esattamente il contrario. Ed è un pezzo fondamentale della crisi politica italiana.
Dare una risposta seria, coerente e di prospettiva a questa crisi è un obiettivo ben più importante del destino di Letta, di Berlusconi, di Renzi o di Alfano. Invece a prevalere sono solo gli effetti venefici del populismo.
Dare questo tipo di risposte dovrebbe essere il primo assillo dei responsabili di grandi partiti che guardano innanzitutto all’interesse generale del paese prima che a quelli di parte o personali. Da Berlusconi non ci si può attendere certamente tutto questo. Dal segretario del primo partito del centrosinistra e dello stesso paese, si.
I veri statisti, il parlamento e la legge elettorale
I grandi statisti italiani sono stati davvero pochi, a contarli non riempiono le dita di una mano: Cavour, Giolitti, De Gasperi. Parlo solo, per comodità, di quelli che hanno avuto funzioni di governo, perché si può essere uomini di stato anche se costretti a ruoli di opposizione.
Questi uomini, pur nella diversità personali e di contesto storico in cui operarono, avevano però una caratteristica comune: tutti e tre erano straordinari parlamentari che mettevano proprio il parlamento al centro della loro azione politica.
Ora, per definizione, il parlamento è il luogo dove si esprime la rappresentanza attraverso eletti che sono espressione di pezzi di società e di territori diversi e, di conseguenza, portatori di interessi vari e spesso configgenti tra loro.
La forza di quei leader fu proprio essere riusciti a dirigere ed a dare un senso unitario a quelle spinte diverse e farle diventare una politica in momenti assai difficili della nostra storia. Esattamente lo stesso che seppero fare i loro omologhi in tutto il mondo democratico. Al contrario coloro che, anche in Italia, basarono le loro fortune (sempre temporanee e con effetti disastrosi per sé e per il loro paese) solo sulla propria leadership, hanno sempre avuto in odio il parlamento definendolo di volta in volta o come inutile orpello e/o come il simbolo stesso di tutti i mali possibili.
La politica di oggi, in Italia, continua ad essere caratterizzata da questa seconda concezione: leaderhip assoluta, inizio e fine di sé stessa. Non è un caso, dunque, che l’accordo sulla legge elettorale Renzi e Berlusconi lo stiano trovando sull’unico vero punto condiviso, le liste bloccate.
Giuseppe De Rita su “Il Mattino” di oggi dice che “la paura di fare un flop induce i partiti ad affidarsi al carisma di uno solo. Ed è inevitabile che il leader cerchi di mantenere il controllo sui suoi eletti, perché correrebbe il rischio in Parlamento di non avere soldati in grado di seguirlo”.
E’ questo e solo questo il motivo della resistenza nei confronti delle preferenze (ma anche dei collegi a questo punto), a cominciare dai due leader sopracitati (con la sottolineatura che almeno Berlusconi lo dice senza ipocrisia). Le preferenze, infatti, rappresentano l’unico modo, in presenza di liste di candidati, lunghe o corte che siano, per dare agli elettori la facoltà di scegliere direttamente i propri rappresentanti. Allo stesso modo non si vogliono i collegi uninominali per evitare di essere “tediati” da qualche centinaio di “sindacalisti del territorio” come, spesso inevitabilmente, diventano i parlamentari eletti in questo modo.
Per dire no alle preferenze poi, si usano argomenti lombrosiani, come se fossero queste la causa di tanti fenomeni degenerativi. La storia recente dimostra, invece, che non solo le liste bloccate del “porcellum” non hanno posto fine a tali fenomeni ma in alcuni casi li hanno addirittura favoriti.
Ma è mai possibile che nessuno sappia guardare alla storia recente di legislature in cui il tasso di migrazione politica o di trasformismo è aumentato rendendo instabili governi con maggioranze enormi come ha dovuto sperimentare lo stesso Berlusconi ? O forse che le liste bloccate hanno impedito l’ingresso in parlamento di persone che eufemisticamente non possono certamente definirsi degli stinchi di santo ?
Non si meni, dunque, il can per l’aia: le liste bloccate sono funzionali ad una concezione populistica che riduce tutto alla funzione salvifica della leadership. Ma la leadership da sola non sempre è sufficiente a dare risposte a problemi che sono tutti politici. Al massimo, quando va bene, fa vincere le elezioni. Ma per diventare statisti la strada è molto più lunga e difficile.
Irresponsabili non solo verso il Paese ma anche verso se stessi e chi li ha votati.
Quanto è successo stasera con il ritiro della delegazione PDL dal Governo Letta è l’epilogo di una vicenda che sfugge ad ogni analisi politica.
Atteso che solo ingenui o in malafede possono credere alla motivazione data da Berlusconi per uscire dal Governo Letta (l’IVA aumenta perché Berlusconi ha aperto la crisi, non il contrario) ci troviamo di fronte ad uno scenario assai inquietante.
C’è un uomo, leader ventennale del centrodestra italiano che è stato condannato, a torto o a ragione (non ci interessa dibattere ancora su questo) in maniera comunque definitiva per un reato.
Quest’uomo, a prescindere da Giunte per le elezioni e voti d’aula, il 16 ottobre andrà o ai domiciliari o ai servizi sociali. La sua libertà personale sarà comunque limitata per un periodo abbastanza lungo. In ogni caso, con quella condanna, non potrà ricandidarsi alle elezioni e non potrà per un periodo di tempo anch’esso più o meno lungo, ricoprire cariche pubbliche.
Questa, può piacere o non piacere, è la nuda e cruda realtà. Una realtà che conoscono tutti, a cominciare dall’interessato passando per Alfano, Santachè, Brunetta, Cicchitto e Schifani.
Si può urlare quanto si vuole, dibattersi fino all’inverosimile, agitare lo spettro della persecuzione giudiziaria, ma nulla potrà cambiare questa realtà.
Ora, se è comprensibile che Berlusconi non voglia riconoscerla e magari dia anche di matto incomprensibile è l’atteggiamento dei suoi seguaci.
Questi non solo non si preoccupano di vedere come uscire dalla crisi terribile che il nostro Paese sta attraversando, ma neppure di come continuare a dare agli elettori di centrodestra una rappresentanza anche al di là delle vicende personali del loro leader.
Perché comunque in questo Paese ci dovrà essere un centrodestra che si confronta democraticamente con un centrosinistra, come avviene in tutto il resto del mondo.
Sia che preferiscano la “bella morte” nella ridotta di Arcore, sia che sperino in tardivi ripensamenti di un Capo che non comprendono più o, infine, perché sperano di portarsi a casa qualche pezzo di piccola e improbabile rendita di posizione politico-elettorale, stanno mandando tutto a puttane, compreso se stessi e quello stesso popolo di centrodestra che pure li aveva mandati a rappresentarli e a governare il Paese.
Far diventare la Santaché un caso politico mi sembra una gran stupidaggine…
Chi scrive non ha in alcuna simpatia Daniela Santaché.
Per farvi capire come la penso si potrebbe dire che la Santaché sta a Berlusconi come Goebbels e la moglie Marta stavano ad Hitler.
Tuttavia aver fatto diventare la sua elezione ad una carica, diciamoci la verità, assolutamente secondaria come la vicepresidenza della Camera un fatto politico (alzino la mano quelli che sanno chi sono o addirittura quanti sono i vicepresidenti della Camera), mi sembra il classico espediente di sparare in alto nel tentativo di colpire altrove.
L’obiettivo è il governo Letta ? Beh, se fosse questo, non capisco perché la crisi dovremmo aprirla sulla Santaché e non magari, ad esempio, su quali ricette proporre per la lotta alla disoccupazione.
Sarebbe più dignitoso e credo proprio che agli italiani interesserebbe di più.
INNOVAZIONE NON NUOVISMO
State certi che se volete strappare unanime consenso anche in una discussione informale prendendo un caffè al bar è sufficiente una tirata sulla necessità di novità: in politica, in TV, nello sport, ecc..
Il nuovo è affascinante per tutti, persino per i conservatori.
D’altro canto, come diceva Catalano buonanima, è retorico chiedersi se è meglio mettere un vestito vecchio e rotto o un vestito nuovo e sano.
La questione è assai più complessa quando si declina il nuovo come categoria della politica, soprattutto in una società come la nostra che, nei fatti, chiude ai giovani ogni prospettiva e ogni opportunità.
Liberare la società italiana e consegnarla alle giovani generazioni rappresenta una vera e propria emergenza democratica ed è uno dei primi compiti della politica, soprattutto della politica di una forza democratica.
Il tema che, però, viene quasi sistematicamente eluso, una volta enunciata la necessità del nuovo e del rinnovamento è quello di come questo nuovo e questo rinnovamento debbano essere effettivamente costruiti.
Qui vediamo che ci si ferma, per incapacità o per calcolo doloso, alla semplice enunciazione, alla proclamazione retorica ed indignata.
In questi anni, invece di costruire per davvero il nuovo si è messa in piedi una insopportabile retorica del nuovo, un nuovo senza alcun pensiero dietro, spesso semplificato al puro dato anagrafico, in una parola si è semplicemente declinato il “nuovismo del vuoto spinto”.
Le ultime elezioni ci hanno consegnato, ad esempio, un forte svecchiamento del Parlamento, ma non mi pare che le cose, almeno finora, stiano andando meglio, anzi.
Assistiamo infatti allo spettacolo di bravi ragazzi che, è l’esempio del Movimento 5 Stelle, per settimane e settimane hanno discusso di scontrini e ricevute. Oppure, nel PD, a giovani deputati così permeabili agli umori di pancia della rete da non garantire al partito che li ha eletti un minimo di tenuta nei momenti cruciali delle prove parlamentari.
La verità è che il nuovo senza un progetto politico, senza una idea di società, senza modelli di riferimento che lo sostengano è destinato a soccombere e a provocare, questo il danno maggiore, un effetto di reazione conservatrice che si riaffida spesso, per insicurezza e per tutela, sotto le ali del peggiore del vecchio.
Vi siete chiesti, ad esempio, perché, nonostante tutta la retorica del nuovo di cui è disseminato il nostro dibattito pubblico i sondaggi danno in crescita un vecchietto di 77 anni e in politica da venti di nome Silvio Berlusconi ?
La rivoluzione francese, il ’68, i grandi movimenti di massa che hanno prodotto profondi cambiamenti nella storia furono prodotti da grandi idee di liberazione portate avanti da persone nuove, non soltanto giovani ma soprattutto giovani.
Perché per produrre cambiamento e innovazione ci vogliono nuove idee non idee nuove.