Cultura

Cinquecento anni da Il Principe di Machiavelli e scoprire che da esso poco si è imparato finora…

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Tra il luglio e il novembre del 1513 Niccolò Machavelli, diplomatico repubblicano ormai estromesso dalla vita politica di Firenze dal ritorno dei Medici, scrisse Il Principe.

Quello che sarebbe diventata l’opera fondamentale della politica moderna fu scritto di getto da un uomo politicamente tagliato fuori dalle vicende storiche del suo tempo.

Un’opera di cui spesso si è discusso senza leggerla, soprattutto per stigmatizzarla, per la nota affermazione de “il fine giustifica i mezzi” che, tra l’altro Machiavelli non ha mai pronunciato.

Lo stesso termine “machiavellismo” è diventato sinonimo di opportunismo politico.

Nulla di più distante dal pensiero del Nostro, il quale, se rimprovero può essergli mosso, è solo quello di essere uomo di crudo realismo e di lettore attento del suo tempo.

Machiavelli non ci dice che il fine giustifica i mezzi ma rileva semplicemente che l’agire politico non può essere subordinato ad un sistema di valori esterno alla politica stessa che si presenta nient’altro che come una scienza umana retta, appunto, da iuxta propria principia, come diceva il suo contemporaneo Bernardino Telesio.

Certo al tempo di Machiavelli la politica si esprimeva attraverso l’agire concreto di re e principi i quali, pur proclamandosi cristianissimi e cattolicissimi, praticavano nell’agire politico ogni nefandezza pur di mantenere il proprio potere ed accrescere la potenza dei propri stati.

Il diplomatico fiorentino, che con quella politica era venuto a contatto guardandola da vicino, si limita a fornire un quadro realistico di essa, individuando modelli di comportamento e interrogandosi sulla natura del potere, sulle azioni che un principe accorto deve intraprendere per mantenere il suo principato, sul modo come comportarsi nei confronti dei sudditi, su come evitare i rovesci della “fortuna”, cioè quella serie di fattori contingenti, diremmo oggi, che spesso condizionano lo sviluppo della politica nella storia.

Al fondo c’è un forte pessimismo sulla natura umana, giudicata di in sé né buona né cattiva anche se il buon governante deve partire dal presupposto che l’uomo spesso è portato più al male che al bene nel suo agire quotidiano.

L’ideale politico di Machiavelli resta però la repubblica, in particolare la repubblica romana, in cui i cittadini sono sottoposti alla legge e dove il governo è della legge non dei singoli. Ma la realtà del suo tempo era ben diversa e drammatica.

In questo Machiavelli non è dissimile da Tommaso Moro che, di fronte alla crudele realtà della politica del suo tempo (che alla fine lo ucciderà) disegna un ideale di stato con la sua Utopia (o come il nostro Campanella con la Città del Sole).

In assenza di un sistema statale in cui la legge prevalga sull’arbitrio anche dello stesso principe (si farà una rivoluzione in Francia due secoli dopo proprio per affermare questo principio) Machiavelli esamina la politica per quella che è e cerca di fare in modo che l’agire dei governanti sia almeno retto da principi di buon senso e dalla necessità di fare il bene dei propri sudditi.

Siamo ancora lontani da Max Weber e dalla sua “etica della responsabilità”, ma il principio moderno per cui la politica non si riduca al solo esercizio e mantenimento del potere ma si ponga come strumento in grado di dirigere le cose umane per soddisfare esigenze collettive mi sembra già enunciato.

In questo senso l’agire politico non può essere sottoposto a nessuna visione ideologica, di qualsiasi segno sia (religiosa, etnica, politica, ecc..) ma seguire regole proprie che trovano la loro ragione nella responsabilità verso il bene comune e collettivo dei cittadini.

Quando la politica comincia a rispondere a dimensioni ideologiche esterne ad essa i danni per la collettività sono sempre terribili e provocano orrori.

Spiace rilevare che la lezione machiavelliana (e di tutti coloro che l’hanno seguito) sia ancora oggi disconosciuta.

Purtroppo assistiamo da una parte allo spettacolo di una politica che, di frequente, persegue solo l’opportunistico mantenimento di un potere fine a se stesso, dall’altra la solita ed ideologica denuncia moralistica che non solo è incapace di compiere un’analisi realistica dei problemi sociali e della maniera con la quale è possibile dare ad essi risposte concrete, ma che spesso non fa altro che spianare la strada a nuovi e più forti opportunismi politico-ideologici non di rado peggiori di quelli contro i quali si era levata.

Una politica che sia in grado di leggere la realtà, interpretarla e governarla senza farsi condizionare da chiacchiere ideologiche e che sia in grado di dirigere davvero le cose umane senza rincorrere le farfalle sotto l’arco di Tito resta, soprattutto in Italia, ancora un’utopia.

Il Movimento 5 stelle è ormai come la Fattoria degli Animali di Orwell.

La fattoria degli animali 2

Forse non è chiaro ai più quello che sta succedendo nel Movimento di Grillo.

Se si caccia una senatrice dal movimento per la sola colpa di avere criticato il “Capo” non ci troviamo soltanto di fronte ad un problema di garanzie di democrazie interna.

Siamo all’essenza dello stalinismo, quello che George Orwell denunciò nella Fattoria degli Animali.

A seguire il dibattito interno dei grillini ci sembra di rivedere i personaggi del racconto orwelliano.

Grillo è Napoleon, il verro che “voleva avere sempre ragione”.

Vito Crimi e la Lombardi e tanti altri che non fanno che ripetere il Verbo del Capo, sono come il maiale Clarinetto, il propagandista che prende per i fondelli gli animali raccontandogli fandonie a cui non crede neppure lui.

Le pecore che ripetono gli slogan sono i presunti iscritti della rete, dove non si fa che ripetere ossessivamente la volontà del Capo, per zittire i dubbiosi e per smentire tutti coloro che pongono dubbi sul fatto che della rivoluzione annunciata ai quattro venti non si intravede neppure l’ombra.

Mancano ancora i cani, che nel racconto orwelliano rappresentavano la polizia e la NKVD, ma penso che Casaleggio si stia attrezzando anche in questo senso, magari dotando di qualche arma i responsabili della comunicazione messi a tutela dei gruppi parlamentari contro i cattivi giornalisti, che so, un laser che secchi la lingua del deputato nello stesso istante in cui si trova nel raggio di almeno 10 metri da un microfono !!!

Mai nella storia della politica italiana ci siamo trovati di fronte ad uno schema simile, incapace persino di cogliere il senso del ridicolo che questi episodi suscitano.

Per Grillo, come si è capito, vale la democrazia dell’articolo quinto, chi ha la mano ha vinto.

Per chi lo ha seguito in buona fede resta il dilemma se essere come l’asino Benjamin, l’unico animale ad aver conservato il proprio senso critico nel generale conformismo, o come il povero Gondrano, il cavallo stakanovista sincero sostenitore di una rivoluzione e che alla fine della sua vita invece di premiarne la devozione, lo manderà al macello per trasformarlo in colla.

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La seconda guerra mondiale secondo Antony Beevor

Conferenza di Yalta

Ci sono libri che meritano di essere letti anche quando parlano di argomenti sui quali si crede sia stato detto e scritto tutto ciò che c’era da dire e da scrivere.

Il prezioso volume di Antony Beevor, La seconda guerra mondiale. I sei anni che hanno cambiato la storia, edito da Rizzoli e uscito da poche settimane nelle librerie italiane, rappresenta un testo decisamente significativo, per la ricchezza della documentazione anche inedita che lo sorregge e per la leggerezza della scrittura che mantiene viva l’attenzione del lettore anche quando racconta particolari militari complessi.

Antony Beevor si conferma con quest’ultimo lavoro, uno dei migliori storici militari contemporanei, confermandosi scrittore capace di parlare ad un vasto pubblico di vicende storiche e militari anche complesse. Ricordo qui due suoi lavori assai interessanti come La guerra civile spagnola e Stalingrado che lo avevano fatto conoscere al pubblico internazionale.

Questa sua ultima fatica riesce a dare un quadro d’insieme di un fatto che sconvolse la vita di milioni di persone in praticamente tutte le latitudini del pianeta.

Beevor ci racconta la guerra dei grandi, di Churchill, di Stalin, di Roosvelt, di Hitler e Mussolini, ma anche quella degli oscuri ufficiali e soldati semplici proiettati sui fronti di guerra attraverso un sapiente innesto di documenti ufficiali e di diaristica.

La guerra ci appare così come il dramma collettivo e individuale di una umanità intera, uomini trascinati nei campi di battaglia, donne, bambini e anziani sterminati nei lager o nelle città bombardate, la tragedia degli stupri e persino del cannibalismo.

Scrive Beevor: “nessun altro periodo della storia offre una fonte di materiale tanto ricca per lo studio di dilemmi, tragedie individuali e collettive, corruzione del potere politico, ipocrisia ideologica, egocentrismo dei comandanti, tradimento, caparbietà, abnegazione, atti di incredibile sadismo e di imprevedibile compassione” (p. 988).

Antony Beevor

Non rappresentano così vezzi letterari i due episodi narrati dall’autore in premessa e a conclusione del suo lavoro.

La storia di un coscritto coreano, reclutato a forza dai giapponesi nel 1938, catturato dall’Armata Rossa nell’unica battaglia prima della guerra tra russi e nipponici (Khalkhin-Gol, in Mongolia 1939) e mandato in un campo di lavoro, arruolato ancora una volta dai sovietici nel 1942 per resistere all’invasione tedesca, catturato dai tedeschi nella battaglia di Char’kov in Ucraina e costretto a combattere contro gli americani che sbarcavano in Normandia nel 1944. Prigioniero in Gran Bretagna si trasferì dopo la fine della guerra negli USA per morirvi nell’Illinois nel 1992. Ma anche la storia di una donna, moglie di un agricoltore tedesco, che si era innamorata di un prigioniero francese assegnato alla loro fattoria in Germania con il quale aveva avuto una relazione. Alla fine della guerra aveva deciso di seguirlo in Francia nei treni che riportavano in patria i deportati in Germania, finendo però arrestata a Parigi.

Due storie diverse che rappresentano chiaramente il dramma degli uomini e delle donne semplici rispetto alle “soverchianti forze storiche” che ne cambiarono il destino.

Un libro straordinario dunque, di cui consiglio la lettura. Unico neo un Ciano definito “cognato” di Mussolini, forse un errore di traduzione che però nulla toglie a questo importante affresco di un periodo che ha davvero cambiato la storia del mondo.

Anche sul web libertà è libertà per gli altri.

Albert Camus

La scorsa settimana si è tenuto a Cosenza un interessante convegno che ha fatto il punto sulla cosiddetta “minaccia cibernetica e il diritto alla privacy” promosso dall’ordine degli ingegneri di Cosenza e dalla Fondazione Mediterranea per l’ingegneria.

Al tavolo dei relatori personalità assai diverse, dal politico ai tecnici fino al rappresentante delle forze dell’ordine e della sicurezza. Sono infatti intervenuti l’ing. Alessandro Astorino (Consigliere Ordine Ingegneri Cosenza), l’on. Enza Bruno Bossio (Commissione Trasporti, Poste e Telecomunicazioni – Camera dei Deputati), il Gen. C.A. Giorgio Cornacchione (Consigliere militare del Presidente del Consiglio dei Ministri), l’ing. Angelo Valsecchi (Consigliere Nazionale Ordine Ingegneri d’Italia), il dott. Stefano Zireddu (Director Global Security e Cyber Crime Investigations Italy, American Express), il dott. Raffaele Barberio, Direttore di Key4biz, il Gen. Luigi Ramponi, Presidente del CESTUDIS.

Non sfugge a nessuno che la straordinaria espansione della Rete quale strumento di informazione e comunicazione pone tutta una serie di problemi assai rilevanti sia sul piano della sicurezza dei dati e dei sistemi informatici che ormai regolano praticamente ogni momento della nostra vita quotidiana, sia sul piano del rispetto della privacy di milioni di persone.

La polemica nata negli USA contro il Presidente Obama sulla intercettazione e catalogazione dei dati riguardanti milioni di cittadini americani all’interno di un programma di lotta al terrorismo internazionale ne è, sostanzialmente, la prova più evidente.

L’on. Bruno Bossio, nel corso del suo intervento, ha messo in evidenza come la Rete non sia altro che “uno specchio del mondo in cui viviamo, ne riflette gli slanci (vedi primavera araba) ma anche le miserie. La Rete si presenta come un’estensione delle relazioni sociali, con profondissime potenzialità elaborative mai conosciute nella storia dell’umanità. Non è un mondo parallelo, ma un’estensione del mondo relazionale e informazionale della nostra società; rappresenta sicuramente il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia mai conosciuto”.

Io credo che ciò sia la prima grande questione che dobbiamo tenere presente: l’umanità oggi ha uno strumento straordinario nelle sue mani per esercitare il proprio diritto alla libera espressione del proprio pensiero e all’acquisizione di informazioni sempre più dettagliate e recenti. Nello stesso tempo l’umanità, per la prima volta nella sua storia, può “sentirsi” finalmente una pur nelle sue enormi differenze, percepirsi come un unico organismo sociale e culturale.

Internet però è un mezzo, non il fine. E’ uno spazio pubblico, non un altro cosmo che vive di vita propria, una realtà virtuale da contrapporre a quella reale.

La Rete può migliorare la nostra qualità della vita ma, nello stesso tempo, restringere i nostri spazi di libertà a seconda dell’uso che se ne fa.

Torna quindi prepotente un tema antico, quello sui limiti della libertà individuale in una società, soprattutto quando questa società diventa sempre più complessa e interconnessa.

A nessuno può essere limitata la libertà di comunicare quello che vuole su Internet purché questa libertà non vada ad incidere sulle libertà di altri, soprattutto se questi ultimi sono più deboli e indifesi (si pensi solo al problema della tutela dei minori).

Da qui l’esigenza di regole e di strumenti di controllo che consentano l’esercizio della libertà di espressione da una parte e garantiscano i diritti individuali di ciascuno alla tutela della propria persona.

Scriveva Albert Camus: “La libertà senza limiti è il contrario della libertà. Solo i tiranni possono esercitare la libertà senza limiti; e, per esempio, Hitler era relativamente un  uomo libero, l’unico d’altronde di tutto il suo impero. Ma se si vuole  esercitare una vera libertà, non può essere esercitata unicamente nell’interesse dell’individuo che la esercita. La libertà ha sempre avuto come limite, è una  vecchia storia, la libertà degli altri. (…). Una libertà che comportasse solo dei diritti non sarebbe una libertà, ma una tirannia. Se invece comporta dei diritti e dei  doveri, è una libertà che ha un contenuto e che può essere vissuta. (…)  La libertà con dei limiti è l’unica cosa che faccia vivere allo stesso tempo colui che la esercita e coloro a favore dei quali viene esercitata”. Camus scrisse queste parole all’interno del saggio Il futuro della civiltà europea quando Internet forse era ancora nei sogni dei suoi inventori, ma le sue parole sono di una attualità stringente.

Per non dover essere costretti, un giorno, a dover scegliere tra il Grande Fratello orwelliano di 1984 e la totale anarchia di un web in cui l’uomo e i suoi diritti vengono maciullati quotidianamente, credo che sia doveroso trovare le forme e gli strumenti per fare in modo che l’enorme spazio di libertà e democrazia che Internet ci offre possa essere messo davvero a disposizione di tutti nel rispetto di tutti.

LA LETTERA DELLA CALABRESE CHAOUQUI NON E’ RAZZISTA. E’ SOLO TRISTE.

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Una brillante ragazza che lavora in una multinazionale, partita da un paesino della Calabria tanti anni fa oggi ottiene il posto d’onore con una sua lettera sulle pagine del “Corriere della Sera”, il più grande quotidiano d’Italia.

Francesca Chaouqui ci racconta di una Calabria barbara, matriarcale, in cui la discriminazione di genere e il femminicidio sono solo il frutto di una società arretrata, chiusa, in cui maschi e femmine vivono in una dimensione arcaica, con ruoli ben definiti.

Francesca Chaouqui è partita anni fa ed ha trovato, purtroppo come tanti, come troppi calabresi, solo fuori dalla sua terra le opportunità che cercava e che meritava.

Come tanti calabresi emigrati ha assorbito la concezione del mondo della città e della comunità che l’ha accolta ed ha cominciato a guardare alla sua terra prima con distacco poi, forse, anche con un po’ di implicito rancore.

La morte della povera Fabiana a Corigliano diventa così non l’ennesimo capitolo di una strage di donne che riguarda l’intero territorio nazionale, dalle Alpi alla Trinacria come si diceva un tempo, ma l’effetto di una specificità locale, regionale, il frutto di una società in cui si dice e si pratica il  “citto tu ca si fimmina”.

Potremmo dire a questa ragazza che si sbaglia, che le donne calabresi sono tutt’altro da come le descrive.

Potremmo dirle che le donne calabresi non sono affatto subalterne, che spesso proprio da loro sono partite grandi lotte di emancipazione che hanno scosso e cambiato profondamente la loro terra e anche i loro uomini.

Potremmo insistere sul concetto che le donne vengono discriminate ed uccise a Brescia e a Busto Arsizio come a San Sosti o ad Avetrana.

Potremmo dirle che le sue parole odorano troppo di pregiudizi e generalizzazioni da bar dello sport, ma lei rimarrebbe dello stesso parere, fiera di essersi “salvata” dalla sorte che è convinta sia nel destino e nel DNA delle sfortunate sue conterranee rimaste a casa.

Francesca, infatti, come tanti emigrati, cerca solo conferme alle ragioni che la spinsero ad abbandonare la sua terra per bisogno o per scelta.

Perché per tanti come Francesca questa terra è più facile leggerla con gli occhi degli altri: è più facile ma anche molto più triste.

 

 

Fabrizio Barca e il “catoblepismo” calabrese

fabrizio Barca

Pubblicato su “Calabria Ora” del 12 maggio 2013

Alzi la mano chi conosce il significato del termine “catoblepismo”.

No, non preoccupatevi, credo che in Italia siano davvero in pochi, senza l’ausilio di Santa Wikipedia, a sapere che questa parola tanto astrusa significa “circolo vizioso”, rapporto distorto fra due soggetti di cui uno chiamato a controllare e l’altro ad essere controllato.

L’ex ministro Fabrizio Barca, oggi nelle vesti di nuovo commentatore del PD nel PD (categoria assai affollata di questi tempi) l’ha usata per definire la relazione distorta che è intervenuta spesso nel rapporto tra partiti e Stato.

Parola difficile usata nel contesto di ragionamenti colti, quelli che di solito animano il discorrere di Fabrizio Barca. Eppure qualcuno deve avergli consigliato di parlare un tantino più potabile e, infatti, nella sua visita in Calabria l’ex ministro ha sviluppato discorsi molto più chiari.

Ha detto, per esempio, che la Calabria è stata “mal governata anche dal centrosinistra”. Poi si è espresso con nettezza quando ha chiesto retoricamente riferendosi all’allagamento degli scavi di Sibari “dov’era il PD ?”.

Tutto condivisibile il discorrere di Barca salvo che nell’aver trascurato uno dei “catoblepismi” calabresi. Infatti, nei cinque anni di governo del centrosinistra in Calabria per tre anni la delega ai beni culturali (quindi competente sul parco archeologico di Sibari) è stata tenuta da uno dei suoi punti di riferimento calabresi, insieme alla vicepresidenza della Giunta regionale.

Senza trascurare il fatto che la personalità in questione fa parte di una scuola di economisti e maitre à penser che da anni ha costituito il centro di elaborazione e per lunghi periodi di gestione e direzione politica della programmazione dei fondi europei in Calabria, scuola di cui l’eminente prof. Fabrizio Barca è capofila.

Allora forse un tantino di prudenza maggiore sarebbe stata necessaria perché se saranno pochi i calabresi che conoscono il significato di “catoblepismo” certamente tutti conoscono la vecchia pratica del predicar bene e razzolare male di cui è pervasa non solo la politica ma anche l’intellighenzia prestata alla politica. E forse Fabrizio Barca la prossima volta farà bene a cambiare esempi per sostenere la sua “mobilitazione cognitiva”.

ESSERE ALL’ALTEZZA DELLA…BASE

PD foto

Perché una classe dirigente deve essere in grado di dirigere e non essere diretta.

Ricorre in questi giorni di animate discussioni il ricorso alle formule magiche: “ascoltare la base”, “rispettare la volontà della base”, ecc.. La base di cui si parla assume contorni mitologici, è una specie misteriosa, la personificazione dell’altrettanto mitica (e talvolta evocatrice di storici e feroci “terrori”) “volontà del popolo”.

La democrazia moderna, sin dalla sua nascita, ha dovuto fare i conti con la cosiddetta “volontà del popolo” che talvolta si esprimeva nei cangianti umori delle folle spesso agitate da spregiudicati demagoghi. Infatti, ogni volta che ci si è affidati agli umori incontrollati del cosiddetto “popolo”, i guai sono stati sempre assai grossi.

Si decise così di ricorrere alla democrazia rappresentativa: il popolo elegge col metodo “una testa un voto” i propri rappresentanti che ne interpretano la volontà collettiva pur dentro il principio di maggioranza.

Insomma, se riflettiamo bene il problema del rapporto tra rappresentante e rappresentati è l’essenza della democrazia e, se vogliamo, della politica stessa. La politica ha, come scopo essenziale, proprio quello di trasformare una volontà diffusa (e spesso confusa) in scelte, in governo. Il tutto nella consapevolezza che non sempre ciò che si urla in piazza corrisponde davvero alla volontà della maggioranza del popolo o, comunque, ai reali e concreti interessi della maggioranza del popolo.

Sta, dunque, al rappresentante essere all’altezza della base che lo ha eletto, avendo anche la capacità di saper spiegare e orientare, insomma, essere classe dirigente che, appunto, dirige.

Ciò che vale per gli stati, vale, ovviamente, anche per i partiti.

Faccio due esempi: dopo la guerra se Togliatti avesse ascoltato, sic et simpliciter, la base del PCI mai avrebbe concesso l’amnistia agli ex fascisti. Invece Togliatti fece proprio questo (magari anche esagerando in clemenza) perché la pacificazione serviva al Paese e al suo stesso partito per farlo diventare una forza di massa pienamente inserita in un sistema democratico maturo.

Ancora, negli anni ’70 nella base del PCI tanti guardavano al terrorismo se non con favore, con una certa comprensione, coniando il termine “compagni che sbagliano”. Per fortuna nel gruppo dirigente del PCI di allora non solo nessuno li ascoltò ma contro queste posizioni fu condotta una fortissima battaglia politica interna. Per fortuna della democrazia italiana completamente vinta.

Insomma, a me piacerebbe un partito con gruppi dirigenti in grado di fare i dirigenti e di essere all’altezza della propria base. E’ chiedere troppo ?

 

La blogger cubana Yoani Sanchez contestata a Perugia

Sanchez contestataSanchez

Domenica scorsa la nota blogger cubana Yoani Sanchez era stata invitata a tenere una conferenza al Festival del giornalismo di Perugia. Proprio nel momento in cui stava per prendere la parola è stata rumorosamente contestata da una trentina di “castristi” italiani.

Che esistessero “castristi” in Italia mi giunge nuova. Non mi sorprende, però, l’intolleranza ideologica di certa parte della sinistra italiana, per fortuna elettoralmente e politicamente ormai assai marginale nel nostro Paese.

La giovane cubana che con grande sacrificio personale e non poche persecuzioni conduce la sua battaglia per la libertà di informazione nel suo Paese, ha espresso un commento che è stata come una lapide per i contestatori: “Anche noi a Cuba vorremmo protestare come hanno fatto loro. E’ bello vedere gente libera di manifestare e per questo li ringrazio. Le loro proteste rendono più alta la mia voce”.

La cosa più sorprendente è che questi “castristi” italiani si sono dimostrati anche più intolleranti di quelli originali, che comunque alla Sanchez hanno concesso un permesso per un ciclo di conferenze in Europa.

A Cuba sono stato anch’io, due volte. Del mito rivoluzionario di Fidel Castro e Che Guevara, sinceramente, ho ritrovato ben poco. Solo molta miseria, una popolazione comunque molto dignitosa e, nonostante tutto, allegra.

La stessa allegria con la quale dico ai “castristi” italiani: “una risata vi seppellirà”.

 

SUL FASCISMO SI DICONO TROPPE CORBELLERIE…

Mussolini ha sempre ragione foto
In un suo film Massimo Troisi ad una entusiasta fascista che decantava le virtù del regime di Mussolini nel far arrivare i treni in orario diceva: “Vabbeh, ma se era solo per questo bastava farlo capostazione mica capo del governo !!!”.
La battuta di Troisi la dice lunga su certo atteggiamento, a dire il vero assai diffuso tanto da affiorare di tanto in tanto nelle dichiarazioni di alcuni esponenti della classe dirigente (gli ultimi tre in ordine di tempo, Berlusconi, la neocapogruppo alla Camera del M5S e il Sottosegretario Polillo), che tende a “giustificare” il fascismo o, quantomeno, a distinguere un “prima” positivo di riforme e modernizzazione dell’Italia e un “dopo” negativo, quello delle leggi razziali, dell’alleanza con Hitler e della tragedia della guerra.
Tralascio qui valutazioni di ordine storiografico piuttosto complesse e mi limito invece ad un paio di considerazioni di fondo che smentiscono alla radice questa impostazione:
1. E’ profondamente sbagliato, oltre che non vero storicamente, che la modernizzazione dell’Italia fu un merito della dittatura fascista, primo perché il processo era già stato avviato con successo dai governi giolittiani prima della Grande Guerra, secondo perché, come dimostra l’esperienza di altri Paesi europei ed occidentali che rimasero nell’ambito della democrazia liberale, la modernizzazione non è affatto una prerogativa dei regimi autoritari e totalitari, anzi.
2. Nessuna realizzazione positiva, nessun intervento sia pure condivisibile di un regime totalitario può cancellare o mettere in secondo piano il fatto che quel sistema di governo si è affermato sulla violenza e sulla negazione delle libertà fondamentali dell’uomo.
Questo secondo punto è assolutamente ineludibile se si vuole dare un giudizio storico vero sul fascismo e in generale su tutti i regimi totalitari, anche di colore opposto e quindi è assolutamente sbagliato parlare di un prima e di un dopo: il prima del fascismo, è bene ricordarlo, furono le squadracce che assaltavano le sedi dei partiti e dei giornali avversari, bastonavano a sangue e uccidevano esponenti politici e sindacali rossi e bianchi che fossero, sparavano sui cortei di lavoratori in sciopero, e tante altre cosette così…
Il dopo sono stati il carcere, il confino e l’esilio per tutti gli antifascisti, fino all’alleanza con Hitler e le leggi razziali, la vergogna di guerre (d’Etiopia, di Spagna e Mondiale) che mandarono a morire una intera generazione in campi di battaglia lontani contro popoli che non ci avevano fatto nulla.
Insomma, prima di parlare del fascismo consiglierei, a molti, di rileggersi almeno un manuale di storia di scuola media inferiore…magari eviteranno brutte figure.
Soprattutto se chi parla è chiamato a rappresentare l’Italia in nome di quella Costituzione e di quelle leggi che sono nate proprio per emendare il nostro Paese dalla vergogna di aver voluto rinunciare alla libertà e alla democrazia in cambio di qualche treno in orario.

“WEIMARIZZAZIONE”…COS’E’ ?

Berlin, Propaganda zur Reichstagswahl

Questa mattina, durante la lettura del quotidiano in classe, un mio studente mi ha chiesto: “Prof…ma che cosa significa weimarizzazione della politica italiana ?”. Gli ho risposto che il termine si riferisce alla triste esperienza della cosiddetta Repubblica di Weimar, nata in Germania dopo la sconfitta della prima guerra mondiale, che fu spazzata via dalla dittatura hitleriana nel 1933. Dopo un inizio difficile, infatti, la Repubblica di Weimar, in cui la socialdemocrazia tedesca era il principale partito (ma assai consistenti elettoralmente erano anche i comunisti e un partito centrista denominato Zentrum) era riuscita a portare la Germania fuori dalla terribile crisi del dopoguerra, a far abbassare l’inflazione e a rimettere in piedi la sua poderosa macchina industriale.

Nel 1930 arrivarono, però, gli effetti della Grande Crisi del 1929 e la Germania ne fu investita in pieno. Nella crisi economica e sociale si inserirono tre fattori esplosivi: la nascita di una estrema destra eversiva guidata da Adolf Hitler, la linea disastrosa adottata dai comunisti tedeschi su ordine di Stalin e della III Internazionale che rifiutava ogni collaborazione con i socialdemocratici e la debolezza ed opportunismo dei conservatori in cui l’avversione ideologica per la sinistra era superiore alla volontà di difendere lo stato democratico. Continua a leggere

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