Cultura

ESSERE ALL’ALTEZZA DELLA…BASE

PD foto

Perché una classe dirigente deve essere in grado di dirigere e non essere diretta.

Ricorre in questi giorni di animate discussioni il ricorso alle formule magiche: “ascoltare la base”, “rispettare la volontà della base”, ecc.. La base di cui si parla assume contorni mitologici, è una specie misteriosa, la personificazione dell’altrettanto mitica (e talvolta evocatrice di storici e feroci “terrori”) “volontà del popolo”.

La democrazia moderna, sin dalla sua nascita, ha dovuto fare i conti con la cosiddetta “volontà del popolo” che talvolta si esprimeva nei cangianti umori delle folle spesso agitate da spregiudicati demagoghi. Infatti, ogni volta che ci si è affidati agli umori incontrollati del cosiddetto “popolo”, i guai sono stati sempre assai grossi.

Si decise così di ricorrere alla democrazia rappresentativa: il popolo elegge col metodo “una testa un voto” i propri rappresentanti che ne interpretano la volontà collettiva pur dentro il principio di maggioranza.

Insomma, se riflettiamo bene il problema del rapporto tra rappresentante e rappresentati è l’essenza della democrazia e, se vogliamo, della politica stessa. La politica ha, come scopo essenziale, proprio quello di trasformare una volontà diffusa (e spesso confusa) in scelte, in governo. Il tutto nella consapevolezza che non sempre ciò che si urla in piazza corrisponde davvero alla volontà della maggioranza del popolo o, comunque, ai reali e concreti interessi della maggioranza del popolo.

Sta, dunque, al rappresentante essere all’altezza della base che lo ha eletto, avendo anche la capacità di saper spiegare e orientare, insomma, essere classe dirigente che, appunto, dirige.

Ciò che vale per gli stati, vale, ovviamente, anche per i partiti.

Faccio due esempi: dopo la guerra se Togliatti avesse ascoltato, sic et simpliciter, la base del PCI mai avrebbe concesso l’amnistia agli ex fascisti. Invece Togliatti fece proprio questo (magari anche esagerando in clemenza) perché la pacificazione serviva al Paese e al suo stesso partito per farlo diventare una forza di massa pienamente inserita in un sistema democratico maturo.

Ancora, negli anni ’70 nella base del PCI tanti guardavano al terrorismo se non con favore, con una certa comprensione, coniando il termine “compagni che sbagliano”. Per fortuna nel gruppo dirigente del PCI di allora non solo nessuno li ascoltò ma contro queste posizioni fu condotta una fortissima battaglia politica interna. Per fortuna della democrazia italiana completamente vinta.

Insomma, a me piacerebbe un partito con gruppi dirigenti in grado di fare i dirigenti e di essere all’altezza della propria base. E’ chiedere troppo ?

 

La blogger cubana Yoani Sanchez contestata a Perugia

Sanchez contestataSanchez

Domenica scorsa la nota blogger cubana Yoani Sanchez era stata invitata a tenere una conferenza al Festival del giornalismo di Perugia. Proprio nel momento in cui stava per prendere la parola è stata rumorosamente contestata da una trentina di “castristi” italiani.

Che esistessero “castristi” in Italia mi giunge nuova. Non mi sorprende, però, l’intolleranza ideologica di certa parte della sinistra italiana, per fortuna elettoralmente e politicamente ormai assai marginale nel nostro Paese.

La giovane cubana che con grande sacrificio personale e non poche persecuzioni conduce la sua battaglia per la libertà di informazione nel suo Paese, ha espresso un commento che è stata come una lapide per i contestatori: “Anche noi a Cuba vorremmo protestare come hanno fatto loro. E’ bello vedere gente libera di manifestare e per questo li ringrazio. Le loro proteste rendono più alta la mia voce”.

La cosa più sorprendente è che questi “castristi” italiani si sono dimostrati anche più intolleranti di quelli originali, che comunque alla Sanchez hanno concesso un permesso per un ciclo di conferenze in Europa.

A Cuba sono stato anch’io, due volte. Del mito rivoluzionario di Fidel Castro e Che Guevara, sinceramente, ho ritrovato ben poco. Solo molta miseria, una popolazione comunque molto dignitosa e, nonostante tutto, allegra.

La stessa allegria con la quale dico ai “castristi” italiani: “una risata vi seppellirà”.

 

SUL FASCISMO SI DICONO TROPPE CORBELLERIE…

Mussolini ha sempre ragione foto
In un suo film Massimo Troisi ad una entusiasta fascista che decantava le virtù del regime di Mussolini nel far arrivare i treni in orario diceva: “Vabbeh, ma se era solo per questo bastava farlo capostazione mica capo del governo !!!”.
La battuta di Troisi la dice lunga su certo atteggiamento, a dire il vero assai diffuso tanto da affiorare di tanto in tanto nelle dichiarazioni di alcuni esponenti della classe dirigente (gli ultimi tre in ordine di tempo, Berlusconi, la neocapogruppo alla Camera del M5S e il Sottosegretario Polillo), che tende a “giustificare” il fascismo o, quantomeno, a distinguere un “prima” positivo di riforme e modernizzazione dell’Italia e un “dopo” negativo, quello delle leggi razziali, dell’alleanza con Hitler e della tragedia della guerra.
Tralascio qui valutazioni di ordine storiografico piuttosto complesse e mi limito invece ad un paio di considerazioni di fondo che smentiscono alla radice questa impostazione:
1. E’ profondamente sbagliato, oltre che non vero storicamente, che la modernizzazione dell’Italia fu un merito della dittatura fascista, primo perché il processo era già stato avviato con successo dai governi giolittiani prima della Grande Guerra, secondo perché, come dimostra l’esperienza di altri Paesi europei ed occidentali che rimasero nell’ambito della democrazia liberale, la modernizzazione non è affatto una prerogativa dei regimi autoritari e totalitari, anzi.
2. Nessuna realizzazione positiva, nessun intervento sia pure condivisibile di un regime totalitario può cancellare o mettere in secondo piano il fatto che quel sistema di governo si è affermato sulla violenza e sulla negazione delle libertà fondamentali dell’uomo.
Questo secondo punto è assolutamente ineludibile se si vuole dare un giudizio storico vero sul fascismo e in generale su tutti i regimi totalitari, anche di colore opposto e quindi è assolutamente sbagliato parlare di un prima e di un dopo: il prima del fascismo, è bene ricordarlo, furono le squadracce che assaltavano le sedi dei partiti e dei giornali avversari, bastonavano a sangue e uccidevano esponenti politici e sindacali rossi e bianchi che fossero, sparavano sui cortei di lavoratori in sciopero, e tante altre cosette così…
Il dopo sono stati il carcere, il confino e l’esilio per tutti gli antifascisti, fino all’alleanza con Hitler e le leggi razziali, la vergogna di guerre (d’Etiopia, di Spagna e Mondiale) che mandarono a morire una intera generazione in campi di battaglia lontani contro popoli che non ci avevano fatto nulla.
Insomma, prima di parlare del fascismo consiglierei, a molti, di rileggersi almeno un manuale di storia di scuola media inferiore…magari eviteranno brutte figure.
Soprattutto se chi parla è chiamato a rappresentare l’Italia in nome di quella Costituzione e di quelle leggi che sono nate proprio per emendare il nostro Paese dalla vergogna di aver voluto rinunciare alla libertà e alla democrazia in cambio di qualche treno in orario.

“WEIMARIZZAZIONE”…COS’E’ ?

Berlin, Propaganda zur Reichstagswahl

Questa mattina, durante la lettura del quotidiano in classe, un mio studente mi ha chiesto: “Prof…ma che cosa significa weimarizzazione della politica italiana ?”. Gli ho risposto che il termine si riferisce alla triste esperienza della cosiddetta Repubblica di Weimar, nata in Germania dopo la sconfitta della prima guerra mondiale, che fu spazzata via dalla dittatura hitleriana nel 1933. Dopo un inizio difficile, infatti, la Repubblica di Weimar, in cui la socialdemocrazia tedesca era il principale partito (ma assai consistenti elettoralmente erano anche i comunisti e un partito centrista denominato Zentrum) era riuscita a portare la Germania fuori dalla terribile crisi del dopoguerra, a far abbassare l’inflazione e a rimettere in piedi la sua poderosa macchina industriale.

Nel 1930 arrivarono, però, gli effetti della Grande Crisi del 1929 e la Germania ne fu investita in pieno. Nella crisi economica e sociale si inserirono tre fattori esplosivi: la nascita di una estrema destra eversiva guidata da Adolf Hitler, la linea disastrosa adottata dai comunisti tedeschi su ordine di Stalin e della III Internazionale che rifiutava ogni collaborazione con i socialdemocratici e la debolezza ed opportunismo dei conservatori in cui l’avversione ideologica per la sinistra era superiore alla volontà di difendere lo stato democratico. Continua a leggere

29 AGOSTO 1862: IL RISORGIMENTO FINI’ IN CALABRIA. 150 anni fa, Garibaldi veniva ferito dai bersaglieri in Aspromonte

Garibaldi ferito in Aspromonte

Pubblicato su “Calabria Ora” del 29 agosto 2012

Per quelli della mia generazione, quando il il Risorgimento si studiava alle scuole elementari, era molto familiare una canzone sul ritmo della marcia dei bersaglieri che diceva “Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba…”.
Quella canzone ricorda un episodio  poco frequentato dalla agiografia risorgimentale e che accadde proprio in Calabria il 29 agosto del 1862 sull’Aspromonte. Significativo il fatto che l’unica ferita piuttosto grave in decenni di scontri in ogni parte del globo, il famoso Eroe dei Due Mondi la prese per un colpo sparatogli dai bersaglieri di quella nuova Italia che proprio lui aveva tanto contribuito a costruire in decenni di battaglie e con la straordinaria impresa dei Mille di appena due anni prima.
Ma come si giunse a questo scontro a fuoco che simbolicamente suggella la fine del Risorgimento e l’inizio della travagliata storia del nuovo Stato italiano, episodio ben ricostruito nel suo splendido film “Noi credevamo” dal regista Martone ?
Il Regno d’Italia era stato proclamato il 17 marzo del 1861 dal Parlamento di Torino dopo più di quarant’anni di moti, rivolte e guerre. Decisivo era stato il compromesso tra democratici e moderati, con l’accettazione da parte dei primi della formula monarchica con a capo Vittorio Emanuele II di Savoia ”purché l’Italia, finalmente, si facesse davvero”.
Garibaldi era stato il principale fautore di questo accordo in polemica con l’intransigenza di Mazzini, consapevole che solo la forza militare del piccolo stato piemontese, l’unico dotato di un vero esercito e ormai schierato sul terreno liberale (Vittorio Emanuele non aveva revocato, nonostante le pressioni austriache dopo la sconfitta del 1848, lo Statuto concesso dal padre Carlo Alberto), avrebbe potuto realizzare il sogno di una Italia libera e unita dalle Alpi alla Trinacria, come si diceva allora.
E nel biennio 1859-1860 il sogno per i quali tanti erano morti e avevano patito anni di prigione e di esilio comminati dagli autoritari stati preunitari (per i quali certo neonostalgismo da operetta appare davvero ridicolo) la combinazione della vittoriosa guerra contro l’Austria con l’appoggio delle armate francesi di Napoleone III e della straordinaria impresa garibaldina contro il Regno delle Due Sicile, consentì di proclamare il Regno d’Italia. Mancavano però ancora il Veneto, il Friuli e il Trentino, rimasti sotto la corona austriaca, e Roma e il Lazio, rimasti sotto il dominio temporale di papa Pio IX ma, soprattutto, sotto la protezione dell’imperatore francese che non intendeva perdere l’appoggio dei cattolici francesi.
Del resto Roma rappresentava per tutto lo schieramento liberale ed indipendentista italiano un obiettivo prioritario. Senza Roma capitale, l’Italia non ci sarebbe mai stata davvero.
Lo stesso Cavour, primo artefice dell’alleanza con la Francia e Napoleone III, aveva fatto proclamare dal Parlamento “Roma capitale” come obiettivo fondamentale del processo unitario italiano già nel marzo del 1861, pochi mesi prima della sua prematura scomparsa.
Per i democratici e Garibaldi Roma rappresentava poi il simbolo stesso della lotta risorgimentale, il sogno della loro gioventù quando nel 1849 avevano proclamato e diretto (Mazzini politicamente e Garibaldi coprendosi di gloria combattendo conto le armate francesi) la straordinaria, anche se breve, esperienza della repubblica romana.
Fosse stato per Garibaldi dopo aver sconfitto i borbonici sul Volturno nell’ottobre del 1860 l’impresa dei Mille avrebbe dovuto proseguire fino alla liberazione di Roma, ma fu Vittorio Emanuele II a fermarlo, su pressione di Cavour che temeva una guerra con la Francia e un terremoto nella politica europea del tempo.
Due anni dopo, siamo nel giugno del 1862, Garibaldi decide di lasciare Caprera e andare in Sicilia. Le cose non vanno bene per il giovane Stato. Praticamente tutto il Mezzogiorno continentale è percorso da una vera e propria guerra civile, il brigantaggio, contro il quale è schierato un terzo degli effettivi dell’esercito italiano in una lotta senza quartiere.
Eppure Garibaldi è accolto con grande entusiasmo in Sicilia e ben presto attorno a lui si radunano circa 2000 volontari armati, pronti a rinverdire le gesta della spedizione dei Mille. Risuona nell’isola il grido: “Roma o morte” e il fascino dell’Eroe dei Due Mondi diventa ancora una volta il catalizzatore di speranze di vario tipo, non ultime quelle di riscatto sociale e di eroica ripresa dell’iniziativa democratica di fronte al grigiore conservatore dell’Italietta savoiarda e “piemontese”.
Il governo, presieduto da Urbano Rattazzi è attonito, incerto. Lascia i suoi funzionari periferici per il momento senza ordini. La cosa più logica sarebbe fermare Garibaldi, magari farlo arrestare prima che faccia danni e provochi una guerra con la Francia. Napoleone III tempesta le cancellerie italiane di messaggi preoccupati e minacciosi. Il re Vittorio Emanuele II è costretto ad intervenire con parole che sanno di sconfessione, contro certi imprudenti iniziative.
Ma Garibaldi non ne tiene conto: già due anni prima Cavour chiedeva che lo si fermasse e Vittorio Emanuele gli scriveva due lettere, una con la quale gli chiedeva di obbedire al Primo Ministro e una con la quale lo invitava a proseguire nella sua impresa e sbarcare in Calabria. L’atteggiamento dell’esercito e della marina sembrano dare ragione a Garibaldi: in Sicilia è lasciato indisturbato nella sua opera di reclutamento e di raccolta delle armi, gli lasciano requisire due battelli per la traversata dello Stretto e solo quando è ormai sbarcato a Melito Porto Salvo, lo stesso posto di due anni prima, gli tirano un paio di cannonate, ma senza troppa convinzione.
Garibaldi si dirige verso l’Aspromonte dove lo raggiungono altri volontari tra cui calabresi, popolani e contadini che continuano a vederlo come “portatore di riscatto, punitore di quegli avversari di classe che avevano tradito entrambi” (A. Placanica, “Storia della Calabria”, Roma, Donzelli, 1999, p.343).
A questo punto, però, il governo interviene: manda contro i garibaldini un distaccamento di bersaglieri comandati dal colonnello Emilio Pallavicini, un tipo “tosto” disponibile anche a sparare contro un monumento nazionale se le circostanze lo avessero richiesto.
Ed è sulla montagna calabrese che i bersaglieri, circa 3500, intercettano i garibaldini. Nonostante Garibaldi avesse dato ordine di non sparare e di non rispondere al fuoco per non fare la guerra contro fratelli, lo scontro ci fu ugualmente e provocò 12 morti e 34 feriti. Lo stesso Garibaldi, che si era fatto avanti forse sperando che alla sua vista i bersaglieri si unissero a lui, fu raggiunto da due colpi, uno all’anca e l’altro nella caviglia che gli provocò una brutta ferita che lo costrinse a mesi e mesi di immobilità.
Si chiudeva, così, nel peggiore dei modi, un episodio assai controverso della nostra storia, con i bersaglieri italiani, un simbolo del nostro Risorgimento, che sparavano contro i garibaldini e il loro capo, altri simboli della nostra epopea nazionale.
Il governo Rattazzi finì nelle polemiche per le sue incertezze inziali e dovette dimettersi, molti funzionari persero il posto, mentre Garibaldi fu rinchiuso nel penitenziario di Varignano, da cui uscì nell’ottobre di quell’anno per effetto dell’amnistia concessa dal re in occasione delle nozze della figlia di Vittorio Emanuele con il re del Portogallo. Una comoda via d’uscita, perché lo Stato italiano non poteva certo permettersi di tenere in prigione troppo a lungo il suo più grande eroe, noto in tutto il mondo.
Un episodio triste, che vide contrapposti ancora una volta gli ideali alla ragion di Stato, il cuore alla ragione. Per la cronaca, dopo un altro sanguinoso tentativo fatto da Garibaldi nel 1867 nella battaglia di Mentana, dove fu sconfitto da francesi e pontifici armati di modernissimi fucili a retrocarica, Roma sarà liberata dai bersaglieri solo nel 1870, dopo la sconfitta di Napoleone III a Sedan ad opera dei prussiani.
Garibaldi, da generoso qual’era, andrà a combattere la sua ultima guerra, ormai anziano e afflitto dall’artrite, proprio in difesa della neonata III Repubblica francese contro i prussiani dimostrando ancora una volta che per lui, la libertà dei popoli era un valore da difendere sempre e comunque, al di là delle convenienze e delle “ragioni di stato”.

 

 

Giuseppe Meluso, la guida calabrese dei fratelli Bandiera. Il nuovo libro di Salvatore Meluso.

Libro di Meluso

Pubblicato su Calabria Ora del 9 giugno 2012

E’ appena uscito per i tipi di “Calabria Letteraria” l’ultimo saggio di Salvatore Meluso dal titolo La guida calabrese dei fratelli Bandiera. Vita straordinaria di Giuseppe Meluso.
Salvatore Meluso (San Giovanni in Fiore, 1926) non è nuovo a questi studi, anzi si può dire senza tema di essere smentiti, che molti dei punti ancora oscuri della presenza in Calabria della sfortunata spedizione dei due fratelli veneziani, sono stati chiariti proprio grazie al lavoro minuzioso e certosino negli archivi di Napoli, Catanzaro e Cosenza di questo attento ricercatore.
Il libro di Meluso ci dimostra, infatti, come spesso siano proprio le cose più evidenti ad essere quelle meno conosciute e più facili alle manipolazioni successive. In particolare Salvatore Meluso si è soffermato sulla figura della guida calabrese della cosiddetta “banda degli esteri” capeggiata dai due fratelli veneziani, quel Giuseppe Meluso, sangiovannese esule a Corfù, che si aggregò alla spedizione con funzioni di guida, l’unico a sfuggire alla cattura dopo l’agguato alla Stragola.
Questo personaggio, certamente assai complesso e contraddittorio, era scappato nell’isola greca sin dal 1834 per sfuggire a condanne per reati di “brigantaggio”, mettendosi al servizio di altri fuoriusciti calabresi sempre per reati comuni, i fratelli De Nobili di Catanzaro.
L’isola ionica, all’epoca protettorato inglese era, inoltre, il rifugio privilegiato degli esuli politici italiani dopo i falliti moti del 1830-31, ed è qui che giunsero Attilio ed Emilio Bandiera dopo aver disertato dalla marina austriaca, qui che reclutarono proprio tra questi esuli (un campionario di tutta l’emigrazione politica italiana come scrive efficacemente Lucio Villari) i 19 partecipanti alla loro spedizione in Calabria.
La spedizione, com’è noto, fu organizzata con grande improvvisazione, senza grandi precauzioni di riservatezza e nonostante il parere contrario di Giuseppe Mazzini e del suo fiduciario a Malta Nicola Fabrizi, per fornire sostegno al moto del 15 marzo 1844 di Cosenza, facilmente sedato dalle autorità borboniche e finito con alcuni morti sulle strade e centinaia di arresti, di cui, però, alcuni giornali stranieri avevano riportato la falsa notizia del successo.
Come guida la scelta cadde su Giuseppe Meluso, a quel tempo molto amico di Giuseppe Miller, un rivoluzionario forlivese, che lo presenta ad Attilio ed Emilio Bandiera i quali lo aggregano alla spedizione perché conoscitore dei luoghi.
Il libro di Salvatore Meluso ricostruisce con dovizia di particolari, desunti da una conoscenza minuziosa dei documenti di archivio oltre che della sconfinata bibliografia sull’argomento, le complesse vicende che caratterizzarono la vita di questo oscuro e bistrattato personaggio calabrese, del suo prezioso e leale contributo alla spedizione dei Bandiera, della sua feroce eliminazione nel corso di una manifestazione che richiedeva l’accesso alle terre demaniali nel 1848, eseguita con lucida determinazione da quelle stesse persone che, premiate generosamente per la cattura degli “esteri” alla Stragola da re Ferdinando II, si erano “riciclati” come liberali e “repubblicani” in quelle convulse giornate dell’”anno delle rivoluzioni”.
La storia cioè dei soliti “gattopardi”, fedeli sudditi del Borbone e poi “intransigenti liberali” a seconda del mutare del vento. E in mezzo la vicenda di quest’uomo, emigrato a Corfù per reati comuni e conquistato all’idea dell’Unità d’Italia, della libertà e della democrazia per la sua frequentazione di altri esuli “politici”e dall’esempio di eroismo dei Bandiera e dei loro compagni che guidò in un territorio ostile rischiando insieme a loro la propria vita e scontando lunghi anni di carcere duro dopo la sua consegna. Un uomo che, tornato al suo paese dopo il carcere, si mise a capo della rivolta contadina per rivendicare l’antico diritto alla terra e morì gridando: “viva la Repubblica”. Un uomo che dopo la sua morte fu sottoposto anche al ludibrio della memoria da parte di quegli stessi che per la cattura dei Bandiera avevano ottenuto lauti compensi, pensioni ed onori dal Borbone i quali, al fine di “rifarsi una verginità politica” con i nuovi governanti, diffusero la falsa notizia, ripresa da certa vulgata risorgimentale postunitaria, che a catturare i Bandiera fu il popolo minuto di San Giovanni in Fiore, impaurito dall’arrivo di una banda di briganti “turchi” capeggiati dal famigerato  “Nivaro” (il soprannome assegnato al Meluso).
Nulla di tutto ciò: i Bandiera ed i loro compagni furono assaliti e catturati dalla Guardia urbana di San Giovanni rafforzata dagli uomini armati al servizio delle famiglie più importanti, notabili e proprietari terrieri, del paese silano.
Un libro prezioso, dunque, che mette nuova luce sul contributo niente affatto trascurabile della Calabria al Risorgimento nazionale e la cui lettura smentisce ulteriormente, se ce ne fosse ancora bisogno, la recente vulgata di un Mezzogiorno non solo indifferente ma addirittura ostile al processo di unificazione di cui abbiamo celebrato da poco il 150° anniversario.

 

IL VERO COLPEVOLE…

cattivik01
CLAMOROSO !!!
Finalmente lo abbiamo scoperto. E’ lui il grande vecchio, l’oscuro che trama nell’ombra, il responsabile di tutti i problemi d’Italia, della mafia, della ndrangheta e della camorra, l’artefice della discesa in campo di Berlusconi, quello che sta dietro al problema della monnezza di Napoli e del mare sporco in Calabria. Si, è proprio lui, il malefico, geniale, imprendibile CATTIVIK !!!

Fascismo e antifascismo a Cosenza. L’omicidio di Paolo Cappello.

Paolo Cappello

Pubblicato su “Calabria Ora” di venerdì 16 marzo 2012.

Contrariamente a quanto certa vulgata, anche storiografica, racconta, l’avvento del fascismo in Calabria fu tutt’altro che semplice e “indolore”. Pur non raggiungendo i livelli di mobilitazione contro gli oppositori politici caratteristici di altre parti d’Italia, lo squadrismo fu presente anche nella nostra regione collezionando la sua bella sequela di intimidazioni, aggressioni e crimini.
Tra questi l’omicidio di un giovane operaio socialista cosentino, Paolo Cappello. Trovatello, come si diceva allora, sposato senza figli, di professione muratore, aveva inizialmente aderito al Partito repubblicano per poi passare ai socialisti. La sera in cui fu ucciso tornava da una riunione del direttivo della sezione “P.Rossi”. Militante attivo, arrestato qualche tempo prima e fatto liberale proprio dalla difesa di Mancini, era amato da tutti i suoi compagni e particolarmente odiato dai fascisti proprio per questa ragione. Insieme a Nicola Adamo, un altro muratore socialista (nonno dell’attuale consigliere regionale) che fu aggredito la stessa sera proprio nel tentativo di andare a soccorrerlo, erano tra i più attivi nel lavoro di propaganda e pronti ad accorrere al richiamo dei loro compagni aggrediti (questa circostanza ha fatto pensare che l’agguato di quella sera fosse premeditato e non casuale).
Siamo nel settembre del 1924. Benito Mussolini siede alla Presidenza del Consiglio da quasi due anni, ma è tutt’altro che tranquillo. Siamo, infatti, nel pieno della crisi seguita al delitto del deputato socialista unitario Giacomo Matteotti, assassinato a Roma dopo la sua vibrante protesta in un memorabile discorso alla Camera il 30 maggio, con il quale aveva denunciato le violenze e le intimidazioni che avevano caratterizzato la campagna elettorale per le elezioni del 6 aprile chiedendone l’invalidazione. Le chiare responsabilità nel delitto del gruppo dirigente più ristretto del fascismo e dello stesso Mussolini, avevano scatenato una ondata di indignazione nell’opinione pubblica e la vibrata protesta delle opposizioni che decidevano di ritirarsi dal Parlamento sull’Aventino per segnare l’illegittimità di una maggioranza e di un governo colpevoli di tale atto nella speranza di un intervento del re Vittorio Emanuele III che, com’è noto, non avvenne, aprendo la strada all’instaurazione della dittatura e alla messa fuori legge di tutte le opposizioni.
In quel clima rovente lo squadrismo aveva ripreso vigore in tutto il Paese. A Cosenza, dove socialisti e comunisti avevano eletto per la prima volta i loro deputati (Pietro Mancini e Fausto Gullo, la cui elezione fu però annullata dalla giunta per le elezioni e i resti assegnati in maniera del tutto arbitraria al popolare Nicola Siles), aggressioni ed intimidazioni si succedevano in un crescendo sempre più drammatico e violento.
In città era attiva una squadra di camicie nere, La Disperata, comandata da Nicola Zupi, che si era resa protagonista di numerose azioni contro esponenti ed organizzazioni della sinistra. L’anno prima era stata bruciata la Camera del Lavoro in Largo Vergini. Tra la primavera e l’estate del 1924 si erano succedute numerose aggressioni ad esponenti socialisti, comunisti e repubblicani nei pressi del rione Massa, il cuore “rosso”  e operaio della città. Persino una festa popolare in piazza del Carmine (l’odierna Piazza Matteotti) e un concerto musicale a Donnici erano stati l’occasione di scontri, agguati e bastonature.
“La Parola Socialista”, che all’epoca era stampata con una tiratura di 3000 copie, era stata sequestrata da due militi fascisti e bruciata pubblicamente in Piazza Prefettura. Il tutto avveniva, secondo un copione comune in tutta Italia, con la sostanziale connivenza delle autorità di PS, che spesso arrestava le vittime e non gli aggressori con il pretesto della “provocazione sovversiva”.
La sera del 14 settembre, una domenica, la squadra fascista, diretta ancora una volta verso la Massa, intercettava all’altezza delle scalinate che danno sul Ponte di San Francesco (via Sertorio Quattromani) un gruppo di operai a loro ben noti come attivisti di sinistra e li faceva oggetto di numerosi colpi di rivoltella. Riporto da questo punto in poi, l’articolo de “La Parola Socialista” dovuto alla penna di Pietro Mancini: “gli aggrediti retrocedettero mentre qualcuno degli aggressori girava pel vicolo dei  Casciari allo scopo, evidentemente, di imbottigliare gli operai. Nel contempo, un nostro compagno, – Paolino Cappello – solo ed inerme anche lui, ritornava a casa. Quando fu nei pressi del ponte di San Francesco fu fatto segno a vari colpi di rivoltella. Colpito gravemente, potè reggersi in piede fino alla Piazza Grande ove cadde svenuto. Un altro socialista, Nicola Adamo, ch’era uscito da casa appena saputo il fatto nel quale un suo compagno era rimasto ferito gravemente, avvistato dai fascisti nei pressi della Piazza Piccola, venne raggiunto e bastonato a sangue. Per tutta la notte di domenica la città fu scorsa da un capo all’altro dalla banda vittoriosa e si procede all’arresto di alcuni…operai”.
Il giorno dopo, nonostante un maldestro tentativo di alibi, Nicola Zupi veniva arrestato. I due operai socialisti, ricoverati in ospedale, venivano piantonati per evitare nuove aggressioni.
Le condizioni di Paolo Cappello apparvero subito gravi. Morì alcuni giorni dopo per le conseguenze delle ferite riportate chiedendo di avere all’occhiello della giacca un garofano rosso. Nicola Adamo se la cavò non senza dolorosi strascichi con una lunga degenza in ospedale. I funerali furono imponenti, tutta la classe operaia di Cosenza vi partecipò, con alla testa l’intero gruppo dirigente socialista, comunista e repubblicano.
Il clima in città restava dunque incandescente e lo squadrismo era più attivo che mai: scritte “Viva Zupi” facevano la loro comparsa sui muri. Il processo sull’assassinio di Paolo Cappello si tenne a Castrovillari perché Cosenza veniva considerata una piazza “ostile”. Cito ancora le parole di Pietro Mancini, difensore di “parte civile”, come si direbbe oggi, insieme a Fausto Gullo, in quel processo: “rammento il processo e la istruttoria difficoltosa, nella quale tanti galantuomini calpestarono per viltà la propria coscienza. (…)Ho nelle orecchie le invettive volgari con le quali ‘gli eroi’ dalla gabbia salutavano l’apparire nell’aula di Fausto Gullo e di me (…). Vedo l’aula gremita di fascisti urlanti e indisturbati, il pubblico ministero venuto da Catanzaro, fraternizzare con i difensori, il Presidente Graziani scandalizzato e impotente, i giurati premuti ed insidiati; e poi il verdetto scandaloso e l’apoteosi degli assassini per le vie di Castrovillari”. Un processo farsa, quindi, con Mancini e Gullo costretti a rifugiarsi in una casa amica per evitare le rappresaglie degli imputati liberati e dei loro scherani.
Dopo la guerra e con il ritorno della democrazia gli imputati del processo rinunziarono alla pregiudiziale di innocenza per poter usufruire della amnistia di Togliatti.

 

Dopo quelli di Passanante seppelliamo anche i resti di Villella per chiudere definitivamente con il razzismo antimeridionale

Passanante e Villella
Giovanni Passanante era un anarchico che nel 1878 attentò, piuttosto maldestramente, in verità, alla vita del re Umberto I a Napoli. Passanante era un pastore di greggi di Salvia di Lucania (oggi Savoia di Lucania) dove era nato nel 1849. Da lì, ultimo di dieci figli di una famiglia povera, si era trasferito a Potenza dove aveva trovato lavoro come sguattero in un’osteria. Grazie all’aiuto economico di un suo paesano, un capitano dell’esercito, poté completare la sua istruzione.
Tra letture della Bibbia e degli scritti di Giuseppe Mazzini si accostò progressivamente alle idee anarchiche e socialiste fino a maturare il proposito di uccidere il re. Si lanciò sulla sua carrozza mentre era in visita a Napoli, fingendo di dover porgere una supplica e colpì di striscio Umberto I con un coltellino di meno di 10 cm. Prontamente bloccato e arrestato fu sottoposto a tortura per giorni nel tentativo di fargli confessare i complici di un inesistente complotto.
In Italia si scatenò, anche in seguito ad un altro attentato anarchico a Firenze, una feroce repressione. Passanante fu condannato a morte, ma la pena capitale fu commutata dal re in ergastolo.
Il sindaco di Salvia di Lucania propose il cambiamento del nome del paese in quello attuale proprio come forma di espiazione per aver dato i natali al tentato regicida. Parenti e omonimi di Passanante furono costretti ad emigrare.
Intanto l’anarchico era stato rinchiuso nel carcere di Portoferraio sull’isola d’Elba, in una cella stretta e priva di latrina dove sopravvisse in condizioni terribili, perdendo completamente la ragione. Fu grazie all’interessamento di alcuni deputati tra cui il repubblicano Agostino Bertani, che Passanante fu trasferito in un manicomio criminale dove morì nel 1910.
Ma le sue vicissitudini non erano finite: dopo la morte fu decapitato e la sua testa e il cervello furono usati per gli studi sulla devianza criminale inaugurati da Cesare Lombroso. Questi miseri resti rimasero presso il Museo Criminologico dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia di Roma fino al 2007, quando sono stati pietosamente seppelliti a Savoia di Lucania grazie all’interessamento del ministro Oliverio Diliberto prima e di Clemente Mastella poi. Decisione che fu presa non senza polemiche in un paese che riesce a dividersi anche su fatti di oltre un secolo fa.
Ma è utile ricordare che tra i resti identificati e conservati nel Museo lombrosiano di Torino ci sono anche quelli di Giuseppe Villella, un brigante calabrese nato a Motta Santa Lucia e morto in carcere dopo una lunga prigionia. Lombroso stesso ne aveva asportato il cranio per trovare prove alla sua teoria sulla devianza criminale come risultante di una degenerazione fisica dovuta alla presenza della cosiddetta “fossetta occipitale”, scoperta per la prima volta proprio nel cranio di Villella.
Per la cronaca, nonostante aver esaminato centinaia di cadaveri di criminali la fossetta era tutt’altro che presente in tutti i crani, a dimostrazione dell’assoluta inconsistenza di questa teoria da un punto di vista scientifico. Nondimeno le teorie lombrosiane ebbero larga eco e diffusione anche sotto forma di vulgata per sostenere l’idea che la devianza era innata in alcuni individui rispetto ad altri, in alcuni gruppi etnici rispetto ad altri. Nel caso di Passanante la devianza era addirittura presente nella duplice forma dell’adesione alle idee anarchiche e socialiste e alla condizione di meridionale.
Le teorie dello studioso veronese sono state completamente smentite dagli studi successivi, ma, ripetiamo, ebbero larga eco anche all’estero, dove erano diffuse interpretazioni distorte del darwinismo Si pensi, ad esempio, ai romanzi di Rudyard Kipling, tutti tendenti a dimostrare la superiorità dell’uomo bianco e la giustezza della sua missione civilizzatrice che trovava riscontro nell’espansione neocolonialista e imperialista a cavallo tra ‘800 e ‘900.
In Italia, assai in ritardo nei suoi tentativi di espansione coloniale (tra l’altro in quegli anni finiti tragicamente a Dogali e ad Adua), i “neri” erano individuati nei meridionali.
Quanto di queste teorie oggi sopravvivono nella cultura politica italiana e in forme abbastanza trasversali oltre alla Lega è, purtroppo, sotto gli occhi di tutti. L’idea che il Sud sia abitato da una razza inferiore continua ad albergare e a motivare concrete scelte di governo oltre che gran parte del circuito mediatico nazionale.
In questo quadro chiedere di dare sepoltura ai resti di Villella, così come è stato fatto per quelli di Passanante, rappresenta qualcosa di più che una doverosa forma di elementare pietà. Significa chiudere simbolicamente con il passato e, nello stesso tempo, dare una risposta a coloro che continuano a guardare al Sud come ad un problema di “civilizzazione”.
Altri Paesi, peraltro giunti alla democrazia molto più tardi di noi, l’hanno fatto: le teste dei “briganti” brasiliani, ad esempio, che erano conservate nel museo di Salvador de Bahia sono state anch’esse seppellite dopo appena trent’anni dalla conclusione della loro drammatica vicenda umana
Sinceramente provo un po’ di vergogna nel sapere che i poveri resti di un uomo continuino ad restare esposti in un Museo della democratica Repubblica italiana.
Si accolga quindi la richiesta del suo comune di nascita, Motta Santa Lucia, e gli si dia degna sepoltura.

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