Cultura
Sulla legge elettorale evitiamo furbizie riproponendo le liste bloccate
La sentenza della Corte Costituzionale è chiara. Sono incostituzionali sia il premio di maggioranza che distorce il principio democratico per il quale è possibile trasformare “una formazione che ha conseguito una percentuale pur molto ridotta di suffragi in quella che raggiunge la maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea” , sia le liste bloccate che impediscono all’elettore di scegliere il proprio rappresentante.
“Non c’è”, infatti, (cito ancora testualmente la sentenza) “un modello di sistema elettorale imposto dalla Carta costituzionale, in quanto quest’ultima lascia alla discrezionalità del legislatore la scelta del sistema che ritenga più idoneo ed efficace in considerazione del contesto storico. Il sistema elettorale, tuttavia, pur costituendo espressione dell’ampia discrezionalità legislativa, non è esente da controllo, essendo sempre censurabile in sede di giudizio di costituzionalità quando risulti manifestamente irragionevole”.
Stando così le cose la Corte non poteva che limitarsi a cassare le parti della legge palesemente incostituzionali perché altrimenti si sarebbe appropriata di prerogative legislative che non le competono. Le leggi le fa il parlamento, che ne ha, come è stato ribadito ancora una volta dalla stessa Corte, la piena legittimità e, anzi, il dovere.
In questo contesto va anche lettala questione relativa alle liste bloccate perché con il “porcellum” veniva a verificarsi “la circostanza che alla totalità dei parlamentari eletti, senza alcuna eccezione” mancasse “il sostegno della indicazione personale dei cittadini che ferisce la logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione. Simili condizioni di voto, che impongono al cittadino, scegliendo una lista, di scegliere in blocco anche tutti i numerosi candidati in essa elencati, che non ha avuto modo di conoscere e valutare e che sono automaticamente destinati, in ragione della posizione in lista, a diventare deputati o senatori, rendono la disciplina in esame non comparabile né con altri sistemi caratterizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi, né con altri caratterizzati da circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto (al pari di quanto accade nel caso dei collegi uninominali)”.
In questa parte molti commentatori hanno voluto leggere un via libera a modelli elettorali di altri paesi, quello spagnolo e tedesco per intenderci, dove le liste bloccate esistono pur essendo molto corte (Spagna) e riferite a circoscrizioni assai piccole o limitate ad una parte degli eleggibili (Germania) essendo gli altri deputati eletti in collegi uninominali. In entrambi i casi i nomi dei candidati sono riportati sulla scheda.
Insomma, la tentazione che si possano riproporre, in forme più “potabili” le liste bloccate, cioè liste più corte ma pur sempre di nominati per essere espliciti, è assai forte. Ed è qui, che a mio parere i cittadini devono vigilare.
Perché se è vero che in Spagna e in Germania esistono liste bloccate è anche vero che in quei Paesi è cresciuta in questi anni l’insofferenza contro quelle leggi elettorali che non consentono il voto diretto al parlamentare da parte dell’elettore.
Non si comprende perché, dunque, dovremmo imitare sistemi elettorali che in quegli stessi paesi sono sottoposti a forti critiche e richieste di revisione. Senza contare che si trascura di dire che già nel sistema spagnolo, per quanto riguarda la parte elettiva del Senato (l’altra parte è delegata delle autonomie locali) sono previste le preferenze. I senatori spagnoli, infatti, sono eletti con il meccanismo del voto limitato, vale a dire che gli elettori, se gli eleggibili in una circoscrizione sono, ad esempio, 4 ne possono votare fino ad un massimo di tre.
Riproporre nella nuova legge elettorale le liste bloccate sarebbe dunque un errore che non farebbe che alimentare la contestazione antipolitica, perché farebbe rientrare dalla finestra ciò che si è cercato di cacciare via dalla porta, vale a dire un parlamento di “nominati”.
Ecco perché la nuova legge elettorale, anche (e io dico soprattutto) su questo punto non può permettersi furbizie che non farebbero che alimentare l’insofferenza dei cittadini.
Le uniche due forme nelle quali l’elettore può scegliere direttamente il proprio rappresentante sono la preferenza e il collegio uninominale. Personalmente preferisco la prima, soprattutto la doppia preferenza di genere che consente alle donne di poter concorrere alla pari degli uomini alla possibilità di essere elette. Ma le forme per garantire questo diritto di scelta degli elettori possono essere diverse, anche guardando all’Europa con occhi meno strabici di quanto spesso si fa (la non citazione del metodo di elezione del Senato spagnolo è, a mio parere, emblematica).
Le forze politiche in parlamento ne scelgano uno, ma decidano, perché fare una buona legge elettorale rappresenta un passo fondamentale anche se non sufficiente per dare finalmente un nuovo assetto alla democrazia italiana.
Su Caterina Simonsen si dovrebbe avere soltanto il buon gusto di tacere
Sul caso di Caterina Simonsen si possono dire tante cose e tutte possono essere inopportune o comunque inadeguate.
Una cosa è comunque certa; l’aggressione che questa ragazza di 25 anni ha subito per aver difeso, sulla base della tragica esperienza della sua vita di malata grave, la sperimentazione medica sugli animali, è vergognosa. Ma dico di più, lo sarebbe stata anche se non fosse stata ammalata e non avesse mostrato nei suoi video la cruda realtà degli effetti della sua malattia.
Per questo motivo sono convinto che la prima considerazione da fare sia proprio la denuncia del degrado che ormai investe lo stesso vivere civile in questo nostro Paese.
E’ mai possibile che non si riesca a discutere nelle forme dovute un qualsiasi argomento, esprimere le proprie opinioni ed ascoltare quelle degli altri senza abbandonarsi alle invettive e agli insulti ? E’ mai possibile che su ogni questione ci si debba dividere in tifoserie contrapposte, in guelfi e ghibellini facendo delle diverse posizioni dei veri e propri stendardi ideologici ?
E’ divenuto davvero insopportabile che, soprattutto dopo la diffusione dei social network, la cifra che si coglie in ogni discussione è quella violenta e aggressiva della prevaricazione e della negazione della stessa legittimità dell’altro, chiunque esso sia, qualunque cosa dica.
Sappiamo tutti che molti di questi comportamenti dipendono dal pessimo esempio che spesso propinano sui mass media i tanti esponenti della classe dirigente che hanno ridotto il nostro dibattito pubblico ad una versione degradata delle dispute da bar dello sport, ma non sarebbe ora di darci un taglio una volta per tutte ?
Io so solo che è difficile, per chi è malato o sta vicino ad un malato, non vivere ogni opportunità che la scienza medica offre, come una speranza. So anche che la stessa scienza, come tutti i prodotti umani, spesso si divide più sulla base delle convinzioni ideologiche di chi la produce che sugli effetti oggettivi delle sue scoperte. E tuttavia compito di una classe dirigente, a tutti i livelli, è tentare di dare risposte a questi problemi, partendo dal principio della difesa ad ogni costo della vita umana e della sua dignità.
In fondo è ciò che Caterina ci ha chiesto con i suoi appelli, esprimendo fino in fondo la sua grande voglia di vivere. E francamente, di fronte alla lotta per la vita di una ragazza di 25 anni si dovrebbe avere soltanto il buon gusto di tacere e vedere come tutti possiamo fare qualcosa per salvarla.
MACALUSO: LA QUESTIONE MORALE DI BERLINGUER NON ERA GIUSTIZIALISMO
Ho finito di leggere l’ultimo libro di Emanuele Macaluso Comunisti e riformisti. Togliatti e la via italiana al socialismo (Milano, Feltrinelli, 2013). E’ un libro intenso e profondo che affronta con lucidità alcuni dei nodi più stringenti dell’evoluzione storica della sinistra italiana e riflette sulle radici dei tanti problemi che essa vive ancora oggi.
In questa sede voglio solo offrire un passo tra i tanti che mi hanno colpito e che condivido. Macaluso parla, infatti della questione morale posta da Enrico Berlinguer e rileva come la lettura che ne è stata data, soprattutto a posteriori, risulti essere falsata in quanto essa, sia pure gravissima, non può essere posta come il solo discrimine all’interno della società trascurando e oscurando la “questione sociale e tutto il complesso di battaglie che da sempre danno senso a una politica di sinistra” (cfr. p. 120). La questione morale, dunque, “si è purtroppo venuta intrecciando con il giustizialismo. L’effetto è stato quello di offuscare la questione sociale, i tratti distintivi del riformismo socialista e le questioni connesse alla ricomposizione della sinistra. Il ruolo assegnato da tutti i dirigenti del PDS/DS/Ulivo/PD a un politicante come Antonio Di Pietro e al suo partitino personale e clientelare, è stato solo un segnale della deriva del centrosinistra al governo e all’opposizione negli anni in cui non è stato possibile tracciare una strada per rinnovare il sistema ormai usurato della Prima repubblica. E più recentemente, in occasione delle elezioni del febbraio 2013 un altro magistrato, Antonio Ingroia, aveva accantonato (non lasciato) la toga di pubblico ministero e pubblico predicatore, per capeggiare una lista patrocinata anche da Di Pietro e un altro pm, De Magistris, in cui si ritrovano i residuati di guerre perdute, Rifondazione Comunista, Comunisti Italiani, Verdi ridotti al verde; con il sostegno di un giornale di successo come Il Fatto Quotidiano che ha sposato la via giudiziaria alla democrazia. L’insuccesso elettorale di Ingroia e soci non deve farci sottovalutare una deriva che non nasce dal nulla, ma dalla corrosione morale della politica aggravatasi negli anni del berlusconismo e dall’incapacità della sinistra di imporre il primato della questione sociale e una battaglia politica nella lotta alla mafia e alla corruzione.
I masanielli in toga sono stati assunti (anche nel PDS/DS/PD) come testimoni della purezza della sinistra; ora si sono messi in proprio e al loro seguito vediamo pezzi del vecchio e del nuovo estremismo parolaio”. (pp.123-124).
Bastoniamo don Abbondio !!!
Ne I promessi sposi un personaggio centrale è certamente il curato don Abbondio, quello che minacciato dai “bravi” di Don Rodrigo, si rifiuta di celebrare le nozze tra Renzo e Lucia e innesca il complesso processo narrativo del romanzo manzoniano.
Don Abbondio è un personaggio comico nel suo crudo realismo: un povero prete di campagna messo di fronte ad avvenimenti più grandi di lui e che reagisce nell’unico modo che conosce, fuggendo dalle proprie responsabilità.
Quelle responsabilità alle quali lo richiama il cardinale Federigo Borromeo e che però trovano il nostro assolutamente incapace di comprendere. Le parole appassionate del cardinale, infatti, non lo smuovono, prova anzi disappunto nel riconoscere nelle argomentazioni dell’alto prelato le stesse che, all’inizio della storia, aveva usato con lui l’umile Perpetua, ha voglia di scappare e pensa tra sé “che sant’uomo, ma che tormento” fino a sbottare nella famosa frase: “Il coraggio chi non ce l’ha non se lo può dare”.
E’ questa frase che lo rende simpatico, quasi che Manzoni, da grande artista ci dica: si dovremmo prenderlo a bastonate a questa bestia, ma in fondo egli non può essere diverso da quello che è, un povero uomo piccolo piccolo, un ignavo di cui al massimo sorridere se non con comprensione almeno con indulgenza
E in verità il prete manzoniano le bastonate se le merita tutte: perché Don Abbondio è il classico debole con i forti e forte con i deboli. Si comprende questo aspetto del suo carattere quando la famosa notte in cui doveva celebrarsi il matrimonio a sorpresa, lo stratagemma con il quale lo strappano dal letto è la restituzione di un prestito, segno che il nostro era uso a prestar denaro ad interesse, un’attività tutt’altro che consona al suo ruolo di “pastore di anime”.
Don Abbondio nel momento cruciale sceglie la strada che gli sembra più semplice e non quella, certamente più difficile che pure Perpetua in tutta la sua umiltà, aveva saputo indicargli. Come tanti, come troppi.
Troppe volte chi dovrebbe prendersi le responsabilità, piccole o grandi che siano, del proprio ruolo, fugge o ne scarica il peso sugli altri senza curarsi che i danni del suo comportamento finiranno per pagarli tutti.
Senza contare che spesso sono proprio questi “don Abbondio” a indossare la veste dei moralisti o, peggio, degli implacabili inquisitori dei mali della “serva Italia, di dolore ostello”, senza riflettere sul fatto che di don Abbondio ce ne stanno in tutte le categorie: imprenditori, professionisti, giornalisti, dirigenti, funzionari, semplici impiegati, insegnanti, politici, operai, ecc., nella gente che semplicemente non fa il proprio dovere.
Perché fare il proprio dovere non significa “fare gli eroi” (nemmeno a Don Abbondio si chiedeva questo) ma semplicemente assumersi le proprie responsabilità.
Ecco perché i tanti don Abbondio dei nostri tempi, quelli che spesso sollevano forche e forconi sempre contro gli altri, dovrebbero interrogarsi su quante bastonate loro stessi hanno già meritato di beccarsi sul groppone.
Auguri a tutti di Buon Natale e Felice Anno Nuovo
IL PORCELLUM E’ INCOSTITUZIONALE…NOMINATI E GIOCATORI DA TRE CARTE SI RASSEGNINO.
La Consulta oggi, con una decisione assai rapida e senza rinvii, ha decretato la fine del porcellum dichiarando incostituzionale sia il premio di maggioranza sia le liste bloccate.
La sentenza, le cui motivazioni saranno rese note nelle prossime settimane (e da quel momento diverrà esecutiva), è ineccepibile e dice la parola fine a tante stupidaggini e giochini da tre carte che pure si erano letti in questi mesi.
Nel mio piccolo, pur non essendo un costituzionalista ma un semplice professore di lettere, avevo già scritto nei giorni scorsi e sono felice di essere stato confermato nelle mie convinzioni.
Negli anni passati ho sostenuto tutte le iniziative referendarie tendenti ad abolire questa legge, anche raccogliendo le firme e aderendo ai comitati nazionali.
Oggi questa sentenza dà ragione a me e ai tantissimi italiani che in tutte le occasioni hanno mostrato tutta la loro insofferenza verso questa che è davvero una “legge porcata”.
La legge Calderoli, alias porcellum è stata il vero “colpo di stato” di questi anni. Essa ha infatti cancellato nello stesso tempo il diritto dei cittadini di scegliere i propri rappresentanti e il loro diritto di essere rappresentati quali abitanti di un territorio, ha delineato i contorni di una democrazia plebiscitaria in cui ci si affidava al leader che sceglieva tutto e per tutti. Per tacere del premio di maggioranza abnorme che neanche il primo governo Mussolini aveva mai avuto il coraggio di introdurre senza una soglia minima.
Non è un caso che Berlusconi, coerentemente, oggi è l’unico che ufficialmente rimpiange il porcellum e boccia la Corte Costituzionale come un organismo “di sinistra”.
Ma potete star certi che sono molti, in queste ore, a piangere in silenzio ed a masticare amaro, anche a sinistra, soprattutto tra coloro che, considerandosi illuminati portatori di magnifiche sorti e progressive, hanno sempre declinato la concezione della cosiddetta democrazia “per nomina” (sic).
Comunque vada, sia se il parlamento, come sarebbe suo dovere a questo punto, farà una nuova legge sia se, invece, resterà fermo e paralizzato nella sua impotenza, un parlamentare per essere eletto dovrà metterci nome e faccia. Non ci sarà più il caro leader o il capocorrente che lo tutela a Roma. L’unica sua tutela dovrà cercarsela sul territorio chiedendo il consenso a cittadini in carne ed ossa, con la loro storia, le loro speranze e, soprattutto, i loro problemi, assumendosi responsabilità e compiendo scelte, dicendo si o no.
E’ la democrazia bellezza.
La strage dei valdesi in Calabria
Pubblicato su L’Ora della Calabria del 24 novembre 2013
La persecuzione e lo sterminio dei valdesi in Calabria rappresenta uno dei momenti più cruenti e drammatici della storia italiana. Ancora oggi gli storici sono incerti sul numero delle vittime la cui cifra è stimata tra un minimo di 600 ad un massimo di 6000. Un vero e proprio tentativo di genocidio unito al tentativo di sradicamento culturale di queste comunità con l’imposizione di matrimoni misti con gli “italiani” e la proibizione dell’uso della lingua occitana.
La strage avvenne tra il maggio ed il giugno 1561 quando il Regno di Napoli era sottoposto al dominio di un viceré spagnolo che governava in nome di Filippo II di Spagna, figlio dell’imperatore Carlo V e strenuo difensore della fede cattolica insidiata dalla Riforma protestante e dalla pressione turco-musulmana nel Mediterraneo. E’ in quel contesto drammatico di guerre di religione che matura la persecuzione dei valdesi di Calabria che erano vissuti nella nostra regione praticamente indisturbati per circa due secoli e mezzo.
I seguaci di Pietro Valdo da Lione, fondatore di una delle sette pauperistiche medievali dichiarata “eretica” nel 1184, erano arrivati infatti in Calabria attorno al XIV secolo per sfuggire alle persecuzioni di cui erano fatti oggetto nelle valli piemontesi e nella Francia Meridionale.
Su invito di alcuni proprietari terrieri calabresi nel 1315 iniziò il trasferimento nella nostra regione di famiglie valdesi con l’offerta di terreni da prendere in fitto. Noti per la loro laboriosità e per saper ricavare raccolti anche nelle difficili terre di montagna, i valdesi arrivarono sempre più numerosi, fondando colonie nell’area di Montalto (Vaccarizzo, Argentina e San Vincenzo e soprattutto San Sisto detto appunto dei Valdesi) e sul Tirreno dove fondarono La Guardia (oggi Guardia Piemontese) su terre concesse dal marchese Salvatore Spinelli.
Riservati e disponibili con le popolazioni locali conservarono la loro lingua occitana (una variante del francese) soprattutto come veicolo della loro fede religiosa. Fino al XVI secolo i valdesi vissero e prosperarono al riparo dalle persecuzioni di cui erano vittime i loro correligionari in Piemonte e in Francia, tollerati dalle autorità religiose che incassavano le generose decime che queste comunità versavano con regolarità al clero locale e osservando un esteriore rispetto della religione cattolica.
La situazione mutò quando scoppiò in Europa la questione protestante con la diffusione delle idee luterane (1517) e l’adesione dei valdesi svizzeri e piemontesi al calvinismo (12 settembre 1532).
L’arrivo in Calabria di un predicatore seguace della nuova Chiesa Valdese che aveva aderito al calvinismo, Gian Luigi Pascale (1559), provocò forte fibrillazione tra i valdesi calabresi che si divisero tra coloro che volevano aderire entusiasticamente alla nuova versione della propria religione (soprattutto le persone più umili) e coloro che invece temevano che l’aperta predicazione di dottrine contrarie all’ortodossia cattolica potesse scatenare la persecuzione e la repressione.
L’arrivo di Pascale, la istituzione di templi in cui praticare apertamente la propria fede, fece precipitare la situazione. Il suo arresto e il conseguente processo spinsero il nuovo viceré di Napoli, don Pedro Afàn de Ribera ad un’azione più decisa, arrivando persino ad aprire un procedimento nei confronti del marchese Spinelli accusato di aver favorito la diffusione dell’eresia. L’insoddisfazione per le esitazioni del vescovo Orazio Greco incaricato inizialmente di istruire il processo, spinse il viceré alla nomina di un nuovo inquisitore nel novembre del 1560, il domenicano Valerio Malvicino. Malvicino agì con decisione, imponendo ai valdesi l’uso dell’abitello giallo, una sorta di marchio, segno esteriore del peccato. Fu fatto poi divieto di riunione a più di sei persone, all’uso della lingua occitana, ai viaggi in Piemonte o in Svizzera, a scrivere lettere non autorizzate preventivamente dall’Inquisizione e l’obbligo ad ascoltare la messa ogni mattina, al catechismo per i bambini e ai sacramenti. Un altro obbligo, particolarmente odioso, fu quello ai matrimoni misti che, nelle intenzioni dell’Inquisizione, avrebbero favorito la progressiva e definitiva scomparsa dell’identità culturale occitana e, con essa, della fede valdese.
La resistenza dei valdesi a queste odiose imposizioni convinse il Malvicino all’uso della forza con l’indizione di una vera e propria “crociata” guidata da Marino Caracciolo, marchese di Bucchianico.
Le truppe del Caracciolo presero facilmente il 29 maggio San Sisto dove la popolazione fu trucidata e in parte imprigionata nelle prigioni di Montalto e di Cosenza per essere giustiziata successivamente. Durante le operazioni ai soldati fu data anche licenza di saccheggio e di stupro.
Più complessa fu l’operazione militare per prendere Guardia dove si ricorse all’inganno del marchese Salvatore Spinelli, di cui i valdesi si fidavano. Questi, fingendo di scortare a Guardia alcuni soldati prigionieri, entrò in paese e, durante la notte del 5 giugno del 1861 aprì le porte alle truppe del Caracciolo. L’eccidio fu terribile, soprattutto accanto alla Porta che fu definita appunto “del Sangue” con centinaia di vittime. Nei mesi successivi la strage continuò con l’esecuzione di altre migliaia di persone prigioniere nelle carceri. Si concludeva così la drammatica vicenda della strage dei valdesi in Calabria.
Eppure, nonostante tanta ferocia, l’identità valdese non è stata completamente sradicata dal territorio calabrese, come dimostra la resistenza della lingua occitana a Guardia Piemontese.
Resta, terribile, il ricordo di un triste episodio di intolleranza e di feroce persecuzione imposto da una politica esterna ed estranea alla Calabria, terra invece, da sempre ospitale e solidale.
4 Novembre 1918. Anniversario della fine della Grande Guerra
Il mio intervento di presentazione del libro di Luca Mariani Il silenzio sugli innocenti
Un uomo normale. Un ragazzone alto e biondo come ce ne sono tanti nella civilissima Norvegia.
Per anni si prepara meticolosamente, accumula denaro, acquista armi ed esplosivo mascherandosi dietro l’innocua attività di agricoltore.
Per anni studia, scrive, prende contatti con organizzazioni di estrema destra europea, assorbe e rielabora la cultura xenofoba e razzista di chi si oppone all’immigrazione, paventa l’islamizzazione dell’Europa e la scomparsa della civiltà occidentale.
Studia ed individua alleati potenziali e, soprattutto, i nemici, i socialisti norvegesi e, in generale, la sinistra europea.
Contro di loro Breivik, così si chiama quest’uomo, questo borghese piccolo piccolo, concepisce il suo piano micidiale e lucido: colpire le sedi del governo laburista norvegese e poi sterminare i giovani del partito laburistache stanno tenendo il loro rituale campo estiva un una isoletta dal nome suggestivo, Utøya.
Così il 22 luglio del 2011 Breivik si alza, si traveste da poliziotto e parte per posizionare il furgone imbottito di esplosivo nel centro di Oslo che provocherà la morte di otto persone e poi raggiunge Utøya dove, a sangue freddo, uccide 69 ragazzi e ragazze.
Luca Mariani descrive con nitidezza di ricostruzione e di particolari il gesto dell’uomo, il dramma della strage, le elaborazioni “politiche” che questi ha posto alla base del suo gesto.
Ma Luca Mariani ci parla anche della disinformazione su questo gesto che si sviluppa in tutta Europa che, alla notizia della strage, individua i responsabili nella Jihad islamica.
Per un giorno intero, fino a quando le autorità norvegesi non rendono note le generalità di Breivik e il suo movente, peraltro dichiarato con spavalderia, è tutto un susseguirsi di parole al vento e di incaute dichiarazioni che evocano lo spettro degli integralisti islamici che attaccano la civile e democratica Europa. E invece l’assassino, il mostro è figlio proprio di quella civiltà.
Breivik non è pazzo.
E’ un assassino politico lucido e freddo che ha voluto compiere un “atto di guerra” contro il partito laburista norvegese per tagliarlo alla radice sterminando la sua giovane generazione, la sua futura classe dirigente.
Breivik ha ragionato, in piccolo, come ragionava Adolf Hitler. Ha ucciso per dare compimento ad una politica colpendo avversari politici. Questa è la realtà.
Realtà sulla quale, denuncia ancora Mariani, è calato un silenzio imbarazzato e, a volte, opportunista.
Ma qui si apre la vera questione che questo libro pone: nella civile e democratica Europa, attraversata dalla più difficile crisi economica dal dopoguerra ad oggi, i semi dell’intolleranza, della xenofobia, del razzismo, in una parola sempre attuale del fascismo, sono tornati a germogliare e minacciano di svilupparsi vigorosamente.
In tutta Europa i partiti xenofobi, populisiti e ostili alla democrazia parlamentare proliferano e raggiungono percentuali ragguardevoli.
Anche in Norvegia e in generale in Scandinavia, culla delle socialdemocrazie più avanzate e di più antica tradizione.
Anche nella Francia, patria della democrazia, dove la Le Pen rischia di portare la sua formazione politica al primo posto dei partiti del suo paese. Senza parlare dell’Italia dove una formazione come la Lega ospita tranquillamente personaggi come Borghezio che definì i ragionamenti di Breivik condivisibili anche se il suo gesto “sbagliato”.
Ma al di là delle espressioni politiche che la destra estrema e comunque alcune formazioni populiste assumono in Europa, è nel profondo della nostra società che la paura del futuro, l’incertezza economica, il dramma della disoccupazione e il ritorno prepotente della povertà stanno risvegliando mostri che sembravano assopiti per sempre.
Breivik è la trasformazione del borghese piccolo piccolo (ricordate lo splendido film di Mario Monicelli ?) in un assassino.
Io credo che proprio su questo dobbiamo riflettere e deve riflettere soprattutto la sinistra.
Come sia possibile, in questa Europa, qui ed ora, inverare parole come solidarietà, accoglienza, integrazione, tolleranza e coniugarle con sicurezza e cambiamento.
Come sia possibile, in una parola, portare la società europea a ragionare, come seppe fare in altri importanti momenti della sua storia, su se stessa e sul suo futuro.
Una sinistra che non si limiti a rincorrere la destra sul terreno del populismo e della semplice riproduzione di ciò che la gente vuol sentirsi dire.
Perché questa è la funzione stessa della sinistra, il fondamento del socialismo.
Qualche anno fa Adriano Sofri scrisse un bellissimo volume dal titolo “Chi è il mio prossimo”.
Riflettendo sulla famosissima parabola evangelica Sofri invitava a riflettere sul significato di prossimo, di colui che riteniamo degno di essere amato.
Perché sono pochi coloro che riescono ad amare tutti, e ci si limita sentire vicini solo i più simili a sé, i suoi prossimi appunto.
La diversità, invece, suscita diffidenza, paura, ostilità.
Eppure il giudeo malmenato dai briganti e lasciato mezzo morto non è aiutato dai suoi compaesani e correligionari, ma da un samaritano, uno straniero, appartenente ad un popolo che i giudei disprezzavano.
La cristianità ha dunque introdotto il concetto di un amore, qui inteso nel senso ampio di empatia, inteso come la capacità di sentire pienamente entro di sé i mali del mondo per risolverli, per dare giustizia.
Un concetto che, se ci riflettete bene, motiva la stessa idea di sinistra.
La sinistra, infatti, essenzialmente lotta contro il pericolo che le diversità, naturali in una società, si cristallizzino fino a diventare diseguaglianze e, quindi, ingiustizie.
Accettare le diseguaglianze come inevitabili o, peggio, utilizzarle per legittimare l’egoismo economico, sociale, culturale o religioso è invece tipico della destra.
La sinistra, dunque, deve essere in grado di porsi la domanda: chi è il mio prossimo, chi è colui che bussa alla porta di casa lacero, affamato, perseguitato e di come può aiutarlo, senza chiedersi se è bianco, nero, musulmano o cristiano, ricco o povero.
La sinistra deve essere capace di solidarietà anche se nella sua stessa casa molti guardano a coloro che bussano con diffidenza e paura, deve saper spiegare a questi perché non bisogna avere né diffidenza né paura, che quell’uomo lacero può portare bene e non male.
La destra, invece, quella porta si limita a chiuderla proclamando la propria libertà di farlo.
Quei ragazzi ad Utøya sono morti perché credevano in un mondo migliore, credevano al loro prossimo.
Chi li ha uccisi li accusava di voler aprire le porte che per lui dovevano restare chiuse.
Si sentiva, Breivik, come un cavaliere templare, l’eroe che combatteva contro gli infedeli e traditori cristiani che minacciano di invadere l’Europa.
Ma come gli ha detto uno dei ragazzi scampati alla strage Breivik non è un eroe, ma di eroi delle idee contrarie alla sue, ne ha creati tanti. Su questi eroi innocenti è bene, dunque, che la cappa del silenzio, finalmente, si alzi.
IL VIDEO DELL’INIZIATIVA
https://www.youtube.com/watch?v=EZBnl2ESxdU&feature=youtu.be
Domenica 27 ottobre presentazione del libro di Luca Mariani Il silenzio sugli innocenti.
Domenica 27 ottobre alle ore 10.30 presso il Caffè Letterario in Piazza Matteotti a Cosenza, nell’ambito della Festa democratica, ho l’onore di partecipare alla presentazione del bel libro di Luca Mariani, Il silenzio sugli innocenti.
Il libro ricostruisce la stragi di Oslo e Utøya in Norvegia, quando Anders Behring Breivik, un giovane della destra eversiva, compì una strage facendo esplodere una bomba nel centro di Oslo che uccise otto persone e poi sterminò 69 ragazzi della gioventù laburista norvegese impegnati in un campo estivo nell’isola di Utøya.
Una strage di socialisti colpevoli, per lo xenofobo Breivik, di favorire l’immigrazione e l’islamizzazione dell’Europa.
Una strage, come lui stesso dichiarò, che aveva lo scopo di distruggere il partito laburista norvegese alla radice.
Un episodio inquietante ancora non del tutto chiarito nelle sue dinamiche e nei legami con altre organizzazioni, anche a livello internazionale, di cui l’assassino si è avvalso per compiere il suo terribile gesto.
Breivik è stato dichiarato sano di mente e condannato alla massima pena carceraria prevista in Norvegia (nazione che non ha l’ergastolo).
A due anni dalla strage, tuttavia, sembra essere calato l’oblio sul fatto che a morire in quel terribile 22 luglio, siano stati giovani socialisti, giovani progressisti che sognavano una società più libera, più giusta, multiculturale e multietnica.
Breivik li ha uccisi proprio per distruggere quel loro sogno.
Ma come ha scritto uno dei ragazzi scampati alla strage rivolgendosi al mostro su Facebook subito dopo la strage, quel sogno non è morto.
«Caro Anders Behring Breivik, sappi che hai perso. Tu credi forse di avere vinto, uccidendo i miei amici e i miei compagni. Tu forse credi di aver distrutto il Partito Laburista e coloro che in tutto
il mondo credono a una società multiculturale. Tu descrivi te stesso come un eroe, un cavaliere. Tu non sei un eroe. Ma una cosa è sicura: tu di eroi ne hai creati».
(Lettera aperta a Behring Breivik di Ivar Benjamin Østebø, sedicenne scampato alla strage di Utøya).
Una importante occasione di riflessione a cui mi sento di invitare tutti a partecipare.