Gabriele Petrone

SUL FASCISMO SI DICONO TROPPE CORBELLERIE…

Mussolini ha sempre ragione foto
In un suo film Massimo Troisi ad una entusiasta fascista che decantava le virtù del regime di Mussolini nel far arrivare i treni in orario diceva: “Vabbeh, ma se era solo per questo bastava farlo capostazione mica capo del governo !!!”.
La battuta di Troisi la dice lunga su certo atteggiamento, a dire il vero assai diffuso tanto da affiorare di tanto in tanto nelle dichiarazioni di alcuni esponenti della classe dirigente (gli ultimi tre in ordine di tempo, Berlusconi, la neocapogruppo alla Camera del M5S e il Sottosegretario Polillo), che tende a “giustificare” il fascismo o, quantomeno, a distinguere un “prima” positivo di riforme e modernizzazione dell’Italia e un “dopo” negativo, quello delle leggi razziali, dell’alleanza con Hitler e della tragedia della guerra.
Tralascio qui valutazioni di ordine storiografico piuttosto complesse e mi limito invece ad un paio di considerazioni di fondo che smentiscono alla radice questa impostazione:
1. E’ profondamente sbagliato, oltre che non vero storicamente, che la modernizzazione dell’Italia fu un merito della dittatura fascista, primo perché il processo era già stato avviato con successo dai governi giolittiani prima della Grande Guerra, secondo perché, come dimostra l’esperienza di altri Paesi europei ed occidentali che rimasero nell’ambito della democrazia liberale, la modernizzazione non è affatto una prerogativa dei regimi autoritari e totalitari, anzi.
2. Nessuna realizzazione positiva, nessun intervento sia pure condivisibile di un regime totalitario può cancellare o mettere in secondo piano il fatto che quel sistema di governo si è affermato sulla violenza e sulla negazione delle libertà fondamentali dell’uomo.
Questo secondo punto è assolutamente ineludibile se si vuole dare un giudizio storico vero sul fascismo e in generale su tutti i regimi totalitari, anche di colore opposto e quindi è assolutamente sbagliato parlare di un prima e di un dopo: il prima del fascismo, è bene ricordarlo, furono le squadracce che assaltavano le sedi dei partiti e dei giornali avversari, bastonavano a sangue e uccidevano esponenti politici e sindacali rossi e bianchi che fossero, sparavano sui cortei di lavoratori in sciopero, e tante altre cosette così…
Il dopo sono stati il carcere, il confino e l’esilio per tutti gli antifascisti, fino all’alleanza con Hitler e le leggi razziali, la vergogna di guerre (d’Etiopia, di Spagna e Mondiale) che mandarono a morire una intera generazione in campi di battaglia lontani contro popoli che non ci avevano fatto nulla.
Insomma, prima di parlare del fascismo consiglierei, a molti, di rileggersi almeno un manuale di storia di scuola media inferiore…magari eviteranno brutte figure.
Soprattutto se chi parla è chiamato a rappresentare l’Italia in nome di quella Costituzione e di quelle leggi che sono nate proprio per emendare il nostro Paese dalla vergogna di aver voluto rinunciare alla libertà e alla democrazia in cambio di qualche treno in orario.

“WEIMARIZZAZIONE”…COS’E’ ?

Berlin, Propaganda zur Reichstagswahl

Questa mattina, durante la lettura del quotidiano in classe, un mio studente mi ha chiesto: “Prof…ma che cosa significa weimarizzazione della politica italiana ?”. Gli ho risposto che il termine si riferisce alla triste esperienza della cosiddetta Repubblica di Weimar, nata in Germania dopo la sconfitta della prima guerra mondiale, che fu spazzata via dalla dittatura hitleriana nel 1933. Dopo un inizio difficile, infatti, la Repubblica di Weimar, in cui la socialdemocrazia tedesca era il principale partito (ma assai consistenti elettoralmente erano anche i comunisti e un partito centrista denominato Zentrum) era riuscita a portare la Germania fuori dalla terribile crisi del dopoguerra, a far abbassare l’inflazione e a rimettere in piedi la sua poderosa macchina industriale.

Nel 1930 arrivarono, però, gli effetti della Grande Crisi del 1929 e la Germania ne fu investita in pieno. Nella crisi economica e sociale si inserirono tre fattori esplosivi: la nascita di una estrema destra eversiva guidata da Adolf Hitler, la linea disastrosa adottata dai comunisti tedeschi su ordine di Stalin e della III Internazionale che rifiutava ogni collaborazione con i socialdemocratici e la debolezza ed opportunismo dei conservatori in cui l’avversione ideologica per la sinistra era superiore alla volontà di difendere lo stato democratico. Continua a leggere

D’ALEMA: IL COMPORTAMENTO DI INGROIA RENDE POCO CREDIBILE IL PAESE

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“Ingroia prima ha condotto l’inchiesta Stato-mafia, non a caso conclusa con una candidatura elettorale, usando il suo ruolo per processare la storia del nostro Paese, poi ha abbandonato il suo ufficio internazionale. Da ministro degli Esteri, so cosa ha significato riuscire a ottenere dall’Onu l’incarico in Guatemala per un italiano. E so cosa vuol dire per la credibilità del Paese che l’incaricato stia lì solo una settimana, per giunta in collegamento con Santoro, e poi se ne vada”.


Scuola Bene Comune

Incontro – 23 novembre 2012 ore 17,00 al Caffè Letterario di Piazza Matteotti – Cosenza — Con: Enza Bruno Bossio, Raffaella Ciardullo, Maria Francesca Corigliano, Caterina Gammaldi, Gabriele Petrone, Alfredo D’Attorre e la Responsabile Nazionale Scuola del PD Francesca Puglisi.

LA SENTENZA DELL’AQUILA SA TROPPO DI CACCIA AGLI UNTORI

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Condannare degli esperti per omicidio colposo per non avere, in sostanza, previsto un terremoto che notoriamente è un evento scientificamente imprevedibile, sa troppo di sentenza basata sulla pressione di una opinione pubblica sconvolta da un evento drammatico e disastroso, sa di volontà di trovare comunque capri espiatori, untori da dare in pasto a folle superstiziose come avveniva nei secoli passati. Senza contare il fatto che, d’ora in avanti la Commissione Grandi Rischi sarà nei fatti messa in condizione di non potere esprimere pareri, perché condizionata o dalla paura di procurare allarmi o di non procurarli. E ciò varrà per ogni esperto chiamato ad esprimere valutazioni di merito su fatti piccoli e grandi, con buona pace del principio dell’autonomia della scienza, che è un valore conquistato da secoli con Bernardino Telesio e Galileo Galilei. Non è un caso che questo processo, prima ancora della sentenza è stato seguito dalla stampa internazionale e sta suscitando forti critiche rispetto al nostro sistema giudiziario che già non godeva di buona fama. Mi chiedo e vi chiedo, fermo restando tutte le valutazioni giuridiche del caso e il processo di appello: si poteva evitare tutto ciò, e soprattutto i colpevoli del disastro dell’Aquila non andavano forse meglio cercati in tanti che hanno alimentato abusivismo e violazioni di leggi antisismiche, in chi non ha mai predisposto piani di protezione civile, ecc. ?

E’ BELLO SENTIRE VICINO IL TUO PARTITO IN QUESTO MOMENTO…

Bersani in un comizio

Bersani in un comizio


BERSANI: SE RESTANO QUESTE NORME SULLA SCUOLA NOI NON LE VOTIAMO
“Voglio dirlo con chiarezza: noi non saremo in grado di votare così come sono le norme sulla scuola, sono norme al di fuori di ogni contesto di riflessione sull’organizzazione scolastica e finirebbero per dare un colpo ulteriore alla qualità dell’offerta formativa”, afferma Pier Luigi Bersani, a proposito delle disposizioni contenute nella legge di stabilità.
Nel rispetto dei saldi, “chiediamo al Governo di rendersi disponibile a modifiche significative. Noi metteremo attenzione alla questione fiscale cercando una soluzione più equa e più adatta ad incoraggiare la domanda interna”. Il Pd, aggiunge Bersani, “metterà attenzione al tema ancora aperto degli esodati”. Ma le norme sulla scuola, per il segretario Pd, “così come sono non saremo in grado di votarle”. “Voglio credere – conclude il leader dei democratici in un comunicato – che ciò sarà ben compreso dal Governo. Diversamente saremmo di fronte ad un problema davvero serio”.

FU GRAVE ERRORE CONSEGNARE IL GARANTISMO ALLA DESTRA BERLUSCONIANA

Raffaele Della Valle

Raffaele Della Valle


La fiction di Tognazzi sulla tragica vicenda di Enzo Tortora ha riportato alla memoria due figure assai importanti di quella vicenda, sulle quali vorrei fare una riflessione: Raffaele Della Valle, avvocato del presentatore che fece politica nel Partito Liberale e poi, per breve tempo, in Forza Italia, partito che contribuì a fondare salvo allontanarsene dopo breve tempo proprio in polemica con Berlusconi. Marco Pannella, leader dei Radicali, personaggio assai discusso e controverso, protagonista di importanti battaglie per i diritti civili ed individuali negli anni ’70 e ancora oggi presente nel dibattito politico.
Entrambi, come si vede, furono risucchiati dal berlusconismo degli albori proprio in nome di quella rivoluzione liberale di cui l’Italia continua ad avere bisogno.
Furono illusi dall’imbonitore di Arcore, certamente, infatti l’abbandonarono abbastanza rapidamente, ma resta da chiedersi perché andarono lì e non a sinistra. E sulla sinistra, ancora oggi, grava l’errore di non aver saputo coniugare la giusta e sacrosanta battaglia per la legalità con la difesa delle garanzie costituzionali che sono alla base di ogni vero sistema democratico.
Aggiungo un ricordo personale: era l’86 o l’87 e Tortora venne all’università a tenere un incontro; noi, i giovani comunisti dell’UNICAL, lo incrociammo e cominciammo a contestare le posizioni del radicali. Lui ci guardò e ci disse: “Voi comunisti, sulla giustizia, siete peggio dei Borboni”. Aveva ragione.

29 AGOSTO 1862: IL RISORGIMENTO FINI’ IN CALABRIA. 150 anni fa, Garibaldi veniva ferito dai bersaglieri in Aspromonte

Garibaldi ferito in Aspromonte

Pubblicato su “Calabria Ora” del 29 agosto 2012

Per quelli della mia generazione, quando il il Risorgimento si studiava alle scuole elementari, era molto familiare una canzone sul ritmo della marcia dei bersaglieri che diceva “Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba…”.
Quella canzone ricorda un episodio  poco frequentato dalla agiografia risorgimentale e che accadde proprio in Calabria il 29 agosto del 1862 sull’Aspromonte. Significativo il fatto che l’unica ferita piuttosto grave in decenni di scontri in ogni parte del globo, il famoso Eroe dei Due Mondi la prese per un colpo sparatogli dai bersaglieri di quella nuova Italia che proprio lui aveva tanto contribuito a costruire in decenni di battaglie e con la straordinaria impresa dei Mille di appena due anni prima.
Ma come si giunse a questo scontro a fuoco che simbolicamente suggella la fine del Risorgimento e l’inizio della travagliata storia del nuovo Stato italiano, episodio ben ricostruito nel suo splendido film “Noi credevamo” dal regista Martone ?
Il Regno d’Italia era stato proclamato il 17 marzo del 1861 dal Parlamento di Torino dopo più di quarant’anni di moti, rivolte e guerre. Decisivo era stato il compromesso tra democratici e moderati, con l’accettazione da parte dei primi della formula monarchica con a capo Vittorio Emanuele II di Savoia ”purché l’Italia, finalmente, si facesse davvero”.
Garibaldi era stato il principale fautore di questo accordo in polemica con l’intransigenza di Mazzini, consapevole che solo la forza militare del piccolo stato piemontese, l’unico dotato di un vero esercito e ormai schierato sul terreno liberale (Vittorio Emanuele non aveva revocato, nonostante le pressioni austriache dopo la sconfitta del 1848, lo Statuto concesso dal padre Carlo Alberto), avrebbe potuto realizzare il sogno di una Italia libera e unita dalle Alpi alla Trinacria, come si diceva allora.
E nel biennio 1859-1860 il sogno per i quali tanti erano morti e avevano patito anni di prigione e di esilio comminati dagli autoritari stati preunitari (per i quali certo neonostalgismo da operetta appare davvero ridicolo) la combinazione della vittoriosa guerra contro l’Austria con l’appoggio delle armate francesi di Napoleone III e della straordinaria impresa garibaldina contro il Regno delle Due Sicile, consentì di proclamare il Regno d’Italia. Mancavano però ancora il Veneto, il Friuli e il Trentino, rimasti sotto la corona austriaca, e Roma e il Lazio, rimasti sotto il dominio temporale di papa Pio IX ma, soprattutto, sotto la protezione dell’imperatore francese che non intendeva perdere l’appoggio dei cattolici francesi.
Del resto Roma rappresentava per tutto lo schieramento liberale ed indipendentista italiano un obiettivo prioritario. Senza Roma capitale, l’Italia non ci sarebbe mai stata davvero.
Lo stesso Cavour, primo artefice dell’alleanza con la Francia e Napoleone III, aveva fatto proclamare dal Parlamento “Roma capitale” come obiettivo fondamentale del processo unitario italiano già nel marzo del 1861, pochi mesi prima della sua prematura scomparsa.
Per i democratici e Garibaldi Roma rappresentava poi il simbolo stesso della lotta risorgimentale, il sogno della loro gioventù quando nel 1849 avevano proclamato e diretto (Mazzini politicamente e Garibaldi coprendosi di gloria combattendo conto le armate francesi) la straordinaria, anche se breve, esperienza della repubblica romana.
Fosse stato per Garibaldi dopo aver sconfitto i borbonici sul Volturno nell’ottobre del 1860 l’impresa dei Mille avrebbe dovuto proseguire fino alla liberazione di Roma, ma fu Vittorio Emanuele II a fermarlo, su pressione di Cavour che temeva una guerra con la Francia e un terremoto nella politica europea del tempo.
Due anni dopo, siamo nel giugno del 1862, Garibaldi decide di lasciare Caprera e andare in Sicilia. Le cose non vanno bene per il giovane Stato. Praticamente tutto il Mezzogiorno continentale è percorso da una vera e propria guerra civile, il brigantaggio, contro il quale è schierato un terzo degli effettivi dell’esercito italiano in una lotta senza quartiere.
Eppure Garibaldi è accolto con grande entusiasmo in Sicilia e ben presto attorno a lui si radunano circa 2000 volontari armati, pronti a rinverdire le gesta della spedizione dei Mille. Risuona nell’isola il grido: “Roma o morte” e il fascino dell’Eroe dei Due Mondi diventa ancora una volta il catalizzatore di speranze di vario tipo, non ultime quelle di riscatto sociale e di eroica ripresa dell’iniziativa democratica di fronte al grigiore conservatore dell’Italietta savoiarda e “piemontese”.
Il governo, presieduto da Urbano Rattazzi è attonito, incerto. Lascia i suoi funzionari periferici per il momento senza ordini. La cosa più logica sarebbe fermare Garibaldi, magari farlo arrestare prima che faccia danni e provochi una guerra con la Francia. Napoleone III tempesta le cancellerie italiane di messaggi preoccupati e minacciosi. Il re Vittorio Emanuele II è costretto ad intervenire con parole che sanno di sconfessione, contro certi imprudenti iniziative.
Ma Garibaldi non ne tiene conto: già due anni prima Cavour chiedeva che lo si fermasse e Vittorio Emanuele gli scriveva due lettere, una con la quale gli chiedeva di obbedire al Primo Ministro e una con la quale lo invitava a proseguire nella sua impresa e sbarcare in Calabria. L’atteggiamento dell’esercito e della marina sembrano dare ragione a Garibaldi: in Sicilia è lasciato indisturbato nella sua opera di reclutamento e di raccolta delle armi, gli lasciano requisire due battelli per la traversata dello Stretto e solo quando è ormai sbarcato a Melito Porto Salvo, lo stesso posto di due anni prima, gli tirano un paio di cannonate, ma senza troppa convinzione.
Garibaldi si dirige verso l’Aspromonte dove lo raggiungono altri volontari tra cui calabresi, popolani e contadini che continuano a vederlo come “portatore di riscatto, punitore di quegli avversari di classe che avevano tradito entrambi” (A. Placanica, “Storia della Calabria”, Roma, Donzelli, 1999, p.343).
A questo punto, però, il governo interviene: manda contro i garibaldini un distaccamento di bersaglieri comandati dal colonnello Emilio Pallavicini, un tipo “tosto” disponibile anche a sparare contro un monumento nazionale se le circostanze lo avessero richiesto.
Ed è sulla montagna calabrese che i bersaglieri, circa 3500, intercettano i garibaldini. Nonostante Garibaldi avesse dato ordine di non sparare e di non rispondere al fuoco per non fare la guerra contro fratelli, lo scontro ci fu ugualmente e provocò 12 morti e 34 feriti. Lo stesso Garibaldi, che si era fatto avanti forse sperando che alla sua vista i bersaglieri si unissero a lui, fu raggiunto da due colpi, uno all’anca e l’altro nella caviglia che gli provocò una brutta ferita che lo costrinse a mesi e mesi di immobilità.
Si chiudeva, così, nel peggiore dei modi, un episodio assai controverso della nostra storia, con i bersaglieri italiani, un simbolo del nostro Risorgimento, che sparavano contro i garibaldini e il loro capo, altri simboli della nostra epopea nazionale.
Il governo Rattazzi finì nelle polemiche per le sue incertezze inziali e dovette dimettersi, molti funzionari persero il posto, mentre Garibaldi fu rinchiuso nel penitenziario di Varignano, da cui uscì nell’ottobre di quell’anno per effetto dell’amnistia concessa dal re in occasione delle nozze della figlia di Vittorio Emanuele con il re del Portogallo. Una comoda via d’uscita, perché lo Stato italiano non poteva certo permettersi di tenere in prigione troppo a lungo il suo più grande eroe, noto in tutto il mondo.
Un episodio triste, che vide contrapposti ancora una volta gli ideali alla ragion di Stato, il cuore alla ragione. Per la cronaca, dopo un altro sanguinoso tentativo fatto da Garibaldi nel 1867 nella battaglia di Mentana, dove fu sconfitto da francesi e pontifici armati di modernissimi fucili a retrocarica, Roma sarà liberata dai bersaglieri solo nel 1870, dopo la sconfitta di Napoleone III a Sedan ad opera dei prussiani.
Garibaldi, da generoso qual’era, andrà a combattere la sua ultima guerra, ormai anziano e afflitto dall’artrite, proprio in difesa della neonata III Repubblica francese contro i prussiani dimostrando ancora una volta che per lui, la libertà dei popoli era un valore da difendere sempre e comunque, al di là delle convenienze e delle “ragioni di stato”.

 

 

Giuseppe Meluso, la guida calabrese dei fratelli Bandiera. Il nuovo libro di Salvatore Meluso.

Libro di Meluso

Pubblicato su Calabria Ora del 9 giugno 2012

E’ appena uscito per i tipi di “Calabria Letteraria” l’ultimo saggio di Salvatore Meluso dal titolo La guida calabrese dei fratelli Bandiera. Vita straordinaria di Giuseppe Meluso.
Salvatore Meluso (San Giovanni in Fiore, 1926) non è nuovo a questi studi, anzi si può dire senza tema di essere smentiti, che molti dei punti ancora oscuri della presenza in Calabria della sfortunata spedizione dei due fratelli veneziani, sono stati chiariti proprio grazie al lavoro minuzioso e certosino negli archivi di Napoli, Catanzaro e Cosenza di questo attento ricercatore.
Il libro di Meluso ci dimostra, infatti, come spesso siano proprio le cose più evidenti ad essere quelle meno conosciute e più facili alle manipolazioni successive. In particolare Salvatore Meluso si è soffermato sulla figura della guida calabrese della cosiddetta “banda degli esteri” capeggiata dai due fratelli veneziani, quel Giuseppe Meluso, sangiovannese esule a Corfù, che si aggregò alla spedizione con funzioni di guida, l’unico a sfuggire alla cattura dopo l’agguato alla Stragola.
Questo personaggio, certamente assai complesso e contraddittorio, era scappato nell’isola greca sin dal 1834 per sfuggire a condanne per reati di “brigantaggio”, mettendosi al servizio di altri fuoriusciti calabresi sempre per reati comuni, i fratelli De Nobili di Catanzaro.
L’isola ionica, all’epoca protettorato inglese era, inoltre, il rifugio privilegiato degli esuli politici italiani dopo i falliti moti del 1830-31, ed è qui che giunsero Attilio ed Emilio Bandiera dopo aver disertato dalla marina austriaca, qui che reclutarono proprio tra questi esuli (un campionario di tutta l’emigrazione politica italiana come scrive efficacemente Lucio Villari) i 19 partecipanti alla loro spedizione in Calabria.
La spedizione, com’è noto, fu organizzata con grande improvvisazione, senza grandi precauzioni di riservatezza e nonostante il parere contrario di Giuseppe Mazzini e del suo fiduciario a Malta Nicola Fabrizi, per fornire sostegno al moto del 15 marzo 1844 di Cosenza, facilmente sedato dalle autorità borboniche e finito con alcuni morti sulle strade e centinaia di arresti, di cui, però, alcuni giornali stranieri avevano riportato la falsa notizia del successo.
Come guida la scelta cadde su Giuseppe Meluso, a quel tempo molto amico di Giuseppe Miller, un rivoluzionario forlivese, che lo presenta ad Attilio ed Emilio Bandiera i quali lo aggregano alla spedizione perché conoscitore dei luoghi.
Il libro di Salvatore Meluso ricostruisce con dovizia di particolari, desunti da una conoscenza minuziosa dei documenti di archivio oltre che della sconfinata bibliografia sull’argomento, le complesse vicende che caratterizzarono la vita di questo oscuro e bistrattato personaggio calabrese, del suo prezioso e leale contributo alla spedizione dei Bandiera, della sua feroce eliminazione nel corso di una manifestazione che richiedeva l’accesso alle terre demaniali nel 1848, eseguita con lucida determinazione da quelle stesse persone che, premiate generosamente per la cattura degli “esteri” alla Stragola da re Ferdinando II, si erano “riciclati” come liberali e “repubblicani” in quelle convulse giornate dell’”anno delle rivoluzioni”.
La storia cioè dei soliti “gattopardi”, fedeli sudditi del Borbone e poi “intransigenti liberali” a seconda del mutare del vento. E in mezzo la vicenda di quest’uomo, emigrato a Corfù per reati comuni e conquistato all’idea dell’Unità d’Italia, della libertà e della democrazia per la sua frequentazione di altri esuli “politici”e dall’esempio di eroismo dei Bandiera e dei loro compagni che guidò in un territorio ostile rischiando insieme a loro la propria vita e scontando lunghi anni di carcere duro dopo la sua consegna. Un uomo che, tornato al suo paese dopo il carcere, si mise a capo della rivolta contadina per rivendicare l’antico diritto alla terra e morì gridando: “viva la Repubblica”. Un uomo che dopo la sua morte fu sottoposto anche al ludibrio della memoria da parte di quegli stessi che per la cattura dei Bandiera avevano ottenuto lauti compensi, pensioni ed onori dal Borbone i quali, al fine di “rifarsi una verginità politica” con i nuovi governanti, diffusero la falsa notizia, ripresa da certa vulgata risorgimentale postunitaria, che a catturare i Bandiera fu il popolo minuto di San Giovanni in Fiore, impaurito dall’arrivo di una banda di briganti “turchi” capeggiati dal famigerato  “Nivaro” (il soprannome assegnato al Meluso).
Nulla di tutto ciò: i Bandiera ed i loro compagni furono assaliti e catturati dalla Guardia urbana di San Giovanni rafforzata dagli uomini armati al servizio delle famiglie più importanti, notabili e proprietari terrieri, del paese silano.
Un libro prezioso, dunque, che mette nuova luce sul contributo niente affatto trascurabile della Calabria al Risorgimento nazionale e la cui lettura smentisce ulteriormente, se ce ne fosse ancora bisogno, la recente vulgata di un Mezzogiorno non solo indifferente ma addirittura ostile al processo di unificazione di cui abbiamo celebrato da poco il 150° anniversario.

 

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