Gabriele Petrone

Enza Bruno Bossio: “Assolta perché innocente, non innocente perché assolta”

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“Finalmente sono uscita da un incubo”. E’ quanto afferma, in una nota, Enza Bruno Bossio sulla conferma in appello della sentenza di assoluzione nel processo Why Not. ”Un incubo – aggiunge – che aveva provato a distruggere la mia vita e quella dei miei figli. Al quale ho resistito non solo con la consapevolezza di non aver fatto mai nulla di illecito, ma anche grazie all’affetto di moltissimi amici. Non mi sono mai sottratta ai processi in tribunale, anche se vivevo fino in fondo l’ingiustizia morale e materiale di quello che mi stava accadendo. Ma nonostante tutto ho avuto fiducia nel compimento dell’azione della magistratura, soprattutto di quella giudicante. Anche perché non mi sento di essere innocente perché assolta, ma assolta perché innocente. Dunque esiste il merito dei processi che si svolgono nelle aule dei tribunali, che sono altra cosa dei processi mediatici che condannano le persone sulla piazza prima ancora di essere giudicate da chi è preposto a questo compito”.
Enza Bruno Bossio è felice. La giustizia, quella vera, quella dei processi che si svolgono nella sola sede preposta dal nostro ordinamento, ha detto definitivamente la parola fine sulla sua vicenda giudiziaria iniziata nel 2006 dall’allora PM Luigi De Magistris.
Sono stati anni terribili in cui è stata messa alla gogna, condannata nelle piazze e sui media, messa alla berlina senza alcuna possibilità di contraddittorio secondo le regole del cosiddetto “processo mediatico” e della “macchina del fango”.
Una carriera brillante stroncata da una macchina infernale, accuse assurde che la mettevano al centro di un fantasioso teorema accusatorio che, tra l’altro, arrivò fino a Prodi e a Mastella e fu una delle cause della fine del governo dell’Unione.
L’inchiesta “Why not” oggi si sta rivelando per quella che è: un enorme, colossale flop, l’ennesimo per un PM che nella sua carriera non è mai riuscito a far condannare nessuno, ma che è stato invece abile nel costruire la sua immagine che gli ha consegnato una carriera politica prima come parlamentare europeo poi come Sindaco di Napoli.
Enza Bruno Bossio oggi è felice, ma quanto ha sofferto in questi anni difficilmente verrà cancellato. Né ci saranno trasmissioni televisive e articoli di giornale che daranno altrettanto spazio alla sua certa ed accertata innocenza come invece era stato fatto per dimostrare la sua “presunta colpevolezza” ed incensare il suo improbabile ed improvvisato Torquemada.
E’ questa la nota più amara di tutta questa vicenda e che ci dice, ancora una volta, come il sistema informativo e mediatico che ruota attorno alla giustizia italiana evidentemente non funzioni.

Fascismo e antifascismo a Cosenza. L’omicidio di Paolo Cappello.

Paolo Cappello

Pubblicato su “Calabria Ora” di venerdì 16 marzo 2012.

Contrariamente a quanto certa vulgata, anche storiografica, racconta, l’avvento del fascismo in Calabria fu tutt’altro che semplice e “indolore”. Pur non raggiungendo i livelli di mobilitazione contro gli oppositori politici caratteristici di altre parti d’Italia, lo squadrismo fu presente anche nella nostra regione collezionando la sua bella sequela di intimidazioni, aggressioni e crimini.
Tra questi l’omicidio di un giovane operaio socialista cosentino, Paolo Cappello. Trovatello, come si diceva allora, sposato senza figli, di professione muratore, aveva inizialmente aderito al Partito repubblicano per poi passare ai socialisti. La sera in cui fu ucciso tornava da una riunione del direttivo della sezione “P.Rossi”. Militante attivo, arrestato qualche tempo prima e fatto liberale proprio dalla difesa di Mancini, era amato da tutti i suoi compagni e particolarmente odiato dai fascisti proprio per questa ragione. Insieme a Nicola Adamo, un altro muratore socialista (nonno dell’attuale consigliere regionale) che fu aggredito la stessa sera proprio nel tentativo di andare a soccorrerlo, erano tra i più attivi nel lavoro di propaganda e pronti ad accorrere al richiamo dei loro compagni aggrediti (questa circostanza ha fatto pensare che l’agguato di quella sera fosse premeditato e non casuale).
Siamo nel settembre del 1924. Benito Mussolini siede alla Presidenza del Consiglio da quasi due anni, ma è tutt’altro che tranquillo. Siamo, infatti, nel pieno della crisi seguita al delitto del deputato socialista unitario Giacomo Matteotti, assassinato a Roma dopo la sua vibrante protesta in un memorabile discorso alla Camera il 30 maggio, con il quale aveva denunciato le violenze e le intimidazioni che avevano caratterizzato la campagna elettorale per le elezioni del 6 aprile chiedendone l’invalidazione. Le chiare responsabilità nel delitto del gruppo dirigente più ristretto del fascismo e dello stesso Mussolini, avevano scatenato una ondata di indignazione nell’opinione pubblica e la vibrata protesta delle opposizioni che decidevano di ritirarsi dal Parlamento sull’Aventino per segnare l’illegittimità di una maggioranza e di un governo colpevoli di tale atto nella speranza di un intervento del re Vittorio Emanuele III che, com’è noto, non avvenne, aprendo la strada all’instaurazione della dittatura e alla messa fuori legge di tutte le opposizioni.
In quel clima rovente lo squadrismo aveva ripreso vigore in tutto il Paese. A Cosenza, dove socialisti e comunisti avevano eletto per la prima volta i loro deputati (Pietro Mancini e Fausto Gullo, la cui elezione fu però annullata dalla giunta per le elezioni e i resti assegnati in maniera del tutto arbitraria al popolare Nicola Siles), aggressioni ed intimidazioni si succedevano in un crescendo sempre più drammatico e violento.
In città era attiva una squadra di camicie nere, La Disperata, comandata da Nicola Zupi, che si era resa protagonista di numerose azioni contro esponenti ed organizzazioni della sinistra. L’anno prima era stata bruciata la Camera del Lavoro in Largo Vergini. Tra la primavera e l’estate del 1924 si erano succedute numerose aggressioni ad esponenti socialisti, comunisti e repubblicani nei pressi del rione Massa, il cuore “rosso”  e operaio della città. Persino una festa popolare in piazza del Carmine (l’odierna Piazza Matteotti) e un concerto musicale a Donnici erano stati l’occasione di scontri, agguati e bastonature.
“La Parola Socialista”, che all’epoca era stampata con una tiratura di 3000 copie, era stata sequestrata da due militi fascisti e bruciata pubblicamente in Piazza Prefettura. Il tutto avveniva, secondo un copione comune in tutta Italia, con la sostanziale connivenza delle autorità di PS, che spesso arrestava le vittime e non gli aggressori con il pretesto della “provocazione sovversiva”.
La sera del 14 settembre, una domenica, la squadra fascista, diretta ancora una volta verso la Massa, intercettava all’altezza delle scalinate che danno sul Ponte di San Francesco (via Sertorio Quattromani) un gruppo di operai a loro ben noti come attivisti di sinistra e li faceva oggetto di numerosi colpi di rivoltella. Riporto da questo punto in poi, l’articolo de “La Parola Socialista” dovuto alla penna di Pietro Mancini: “gli aggrediti retrocedettero mentre qualcuno degli aggressori girava pel vicolo dei  Casciari allo scopo, evidentemente, di imbottigliare gli operai. Nel contempo, un nostro compagno, – Paolino Cappello – solo ed inerme anche lui, ritornava a casa. Quando fu nei pressi del ponte di San Francesco fu fatto segno a vari colpi di rivoltella. Colpito gravemente, potè reggersi in piede fino alla Piazza Grande ove cadde svenuto. Un altro socialista, Nicola Adamo, ch’era uscito da casa appena saputo il fatto nel quale un suo compagno era rimasto ferito gravemente, avvistato dai fascisti nei pressi della Piazza Piccola, venne raggiunto e bastonato a sangue. Per tutta la notte di domenica la città fu scorsa da un capo all’altro dalla banda vittoriosa e si procede all’arresto di alcuni…operai”.
Il giorno dopo, nonostante un maldestro tentativo di alibi, Nicola Zupi veniva arrestato. I due operai socialisti, ricoverati in ospedale, venivano piantonati per evitare nuove aggressioni.
Le condizioni di Paolo Cappello apparvero subito gravi. Morì alcuni giorni dopo per le conseguenze delle ferite riportate chiedendo di avere all’occhiello della giacca un garofano rosso. Nicola Adamo se la cavò non senza dolorosi strascichi con una lunga degenza in ospedale. I funerali furono imponenti, tutta la classe operaia di Cosenza vi partecipò, con alla testa l’intero gruppo dirigente socialista, comunista e repubblicano.
Il clima in città restava dunque incandescente e lo squadrismo era più attivo che mai: scritte “Viva Zupi” facevano la loro comparsa sui muri. Il processo sull’assassinio di Paolo Cappello si tenne a Castrovillari perché Cosenza veniva considerata una piazza “ostile”. Cito ancora le parole di Pietro Mancini, difensore di “parte civile”, come si direbbe oggi, insieme a Fausto Gullo, in quel processo: “rammento il processo e la istruttoria difficoltosa, nella quale tanti galantuomini calpestarono per viltà la propria coscienza. (…)Ho nelle orecchie le invettive volgari con le quali ‘gli eroi’ dalla gabbia salutavano l’apparire nell’aula di Fausto Gullo e di me (…). Vedo l’aula gremita di fascisti urlanti e indisturbati, il pubblico ministero venuto da Catanzaro, fraternizzare con i difensori, il Presidente Graziani scandalizzato e impotente, i giurati premuti ed insidiati; e poi il verdetto scandaloso e l’apoteosi degli assassini per le vie di Castrovillari”. Un processo farsa, quindi, con Mancini e Gullo costretti a rifugiarsi in una casa amica per evitare le rappresaglie degli imputati liberati e dei loro scherani.
Dopo la guerra e con il ritorno della democrazia gli imputati del processo rinunziarono alla pregiudiziale di innocenza per poter usufruire della amnistia di Togliatti.

 

QUESTIONE ROM: L’INTEGRAZIONE E’ UN DOVERE SIA PER CHI ARRIVA SIA PER CHI OSPITA.

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Diciamoci la verità, per poco non ci è scappato il morto con l’incendio nel “villaggio” ROM sul fiume di Cosenza. Senza contare le condizioni vergognose in cui vivono le persone in quella “favela”, tra sporcizia, topi e il rischio continuo che il fiume se li porti via con un’ondata di piena improvvisa. Oggi apprendiamo del rifiuto dei 60 scampati all’incendio a trasferirsi nella ex scuola “Don Milani” e a voler restare lì, in quelle condizioni degradate. Tutto ciò ci pone di fronte alla domanda: può una città civile consentire che 500-600 persone vivano in quelle condizioni, a rischio della loro stessa incolumità fisica ? Può, nello stesso tempo, accettare la pervicace ostinazione a voler restare in quelle condizioni ? Si può legittimare questa ostinazione, spesso dettata da motivazioni ben poco nobili, con la costruzione di un villaggio (eco, temporaneo o a numero chiuso che sia) che nei fatti diventerà l’ennesimo ghetto ? Massimo Converso, presidente dell’Opera Nomadi, giustamente si batte contro questa soluzione. I villaggi di quel tipo legittimano solo l’evasione scolastica, la volontà di non essere censiti e di occultare attività spesso “utilizzate” come manovalanza a basso costo dalla malavita.
Dovunque l’integrazione è avvenuta quando culture si sono mescolate, tollerandosi ed accettandosi con quella ospite, rinunciando certo, a parte di sé ma per il supremo bene della convivenza e della sicurezza collettive. Il nostro ordinamento, ad esempio, non consente, giustamente, la poligamia o il burka, pur difendendo il diritto di tutti a professare la propria fede.
Se la nostra casa è pericolante e mette in pericolo la nostra sicurezza e quella degli altri il nostro ordinamento prevede, giustamente, l’evacuazione di quella casa anche in deroga al nostro diritto di proprietà su quell’immobile.
Sono regole elementari che tutti, nel nostro territorio, sono tenuti a rispettare. E se persisto nel volerle non rispettare posso essere, legittimamente, invitato ad andar via.
Nel 2007 il “villaggio” sul fiume Crati fu sgombrato e i suoi abitanti, grazie ad un’azione congiunta di Prefettura, Comune, Provincia e Curia furono trasferiti in case reperite (non senza difficoltà) dal Comune e nei comuni dell’hinterland. Non durò molto perché i rom abbandonarono le case e tornarono sul fiume, con alterchi e risse scoppiate tra coloro che volevano comunque accettare le soluzioni offerte e quelli che invece si ostinavano a restare nella baraccopoli. Ci fu anche una polemica, che coinvolse il sottoscritto, che ribadiva la bontà della scelta del 2007, e alcune cosiddette associazioni “antirazziste” che chiedevano l’allestimento di un villaggio perché i rom sono naturalmente “nomadi” e quindi naturalmente portati ad abitare in baracche. Fui preso a male parole anche quando criticai la cosiddetta “scuola del vento” messa in piedi da queste associazioni, una iniziativa che allestiva una scuola per i bambini nella baraccopoli mentre gli scuolabus del Comune continuavano a viaggiare vuoti, nonostante l’impegno degli amministratori e di alcuni dirigenti scolastici di allora di dotare alcuni istituti di una politica di accoglienza e persino di docce per dei bambini che, vivendo all’addiaccio, non potevano certamente essere al massimo dell’igiene (una decisione presa tra le proteste dei genitori dei bambini italiani che inscenarono vivaci manifestazioni). Ma questa è la strada dell’integrazione, difficile, ma senza alternative.
Sarò antico, potrò non essere un esperto di antropologia, ma io continuo a pensare che vivere in una baracca in campi-ghetto, anche se dotati di minimi servizi essenziali, non possa essere un esempio di integrazione. Continuo a pensare che l’integrazione scolastica si svolga nelle scuole, mettendo insieme bambini di diversa cultura ed etnia e sia inaccettabile che possano esistere scuole diverse per bambini diversi. Io continuo a credere che abbia ragione Massimo Converso quando propone di persistere sulla soluzione del 2007 e a rifiutare la logica dei ghetti. Perché a nessuno è consentito di rifiutare le regole del posto in cui vive e pretendere la legittimazione di una illegittimità. Perché integrarsi è un dovere sia per chi arriva sia per chi ospita, sempre.

Per un pugno di voti il Molise rimane al centrodestra. Per il PD resta aperto il problema delle alleanze.

Logo del PD
In Molise con il 46,94 % il candidato del centrodestra Angelo Michele Iorio si conferma per la terza volta alla guida della piccola regione seguito con il 46,15 % dal candidato del centrosinistra Paolo Di Laura Frattura. Uno scarto in termini assoluti di appena 1500 voti.
Dita puntate su Grillo che con il suo 5,6% avrebbe impedito al centrosinistra di vincere. Franceschini li accusa di aver fatto vincere “un inquisito”.
Ora, francamente io credo che dare la colpa a Grillo di non essersi alleato con il centrosinistra in nome dell’antiberlusconismo sia un grave errore politico. Intanto perché è davvero singolare pensare che Grillo e il suo movimento che interpreta pienamente e coerentemente l’antipolitica italiana possa essere suscettibile di un’alleanza di governo, anche a livello locale.
Pensare a Grillo come l’ennesimo partito o movimento del centrosinistra da aggregare nel “Fronte popolare anti-Berlusconi” è la rappresentazione del limite profondo che ancora pervade la strategia delle alleanze di governo del PD. Primo perché Berlusconi, nonostante le fiducie, non è eterno e secondo perché un’alleanza siffatta, pur vincente, non sarebbe in grado di governare (l’esperienza dell’Unione sta ancora lì, tutta, a ricordarci il limite di quella politica e che ci spinse, giustamente, a dare vita al PD).
La strutturazione del Centrosinistra di Vasto, PD+IDV+SEL non è sufficiente non solo numericamente, ma politicamente.
Tenere insieme chi propone il ritorno alla legge Reale dopo i fatti di Roma con chi fino a ieri dichiarava che Carlo Giuliani era un eroe è un’operazione che non ha la minima credibilità e quando si andrà a votare non potrà non emergere e anche se si vincesse non potrebbe non pesare.
Di Pietro, che qui ha eletto il suo “Trota” consigliere regionale è un populista che in qualunque democrazia “normale” troverebbe la sua naturale collocazione nella destra, magari in quella cosiddetta “sociale” che nel Parlamento europeo raggruppa gli esponenti di Jean Marie Le Pen o i post-falangisti spagnoli.
Un’altra contraddizione è costituita da Vendola e da SEL, che si configura come una riedizione, neppure tanto nuova, del PRC bertinottiano. La notizia riportata oggi dal Corriere della Sera secondo la quale SEL avrebbe mediato con il “movimento” per un certo tipo di corteo in cambio di candidature tipo quelle che portarono i no global Caruso e Agnoletto nelle tanto bistrattate ma allo stesso tempo tanto spasmodicamente cercate istituzioni “borghesi”, se vera, rileva una difficoltà di fondo per Vendola di staccarsi da un retaggio politico caratterizzato da un antagonismo marginale e comunque assolutamente incompatibile con il profilo e la funzione di una sinistra moderna che si candida addirittura a guidare un grande Paese europeo come l’Italia.
Se poi guardiamo ai risultati delle liste balza subito agli occhi la buona affermazione dei socialisti, che passano dal 3 al 5 % (superando i grillini che come liste arrivano appena al 3 % e non conquistano neppure un seggio), il 9 % del PD (pochino) e l’altrettanto deludente risultato di Di Pietro (8,37%), che nella sua regione, con il figlio candidato perde in voti (quasi 2000) e percentuale. SEL e Rifondazione Comunista insieme superano di poco il 6%. Nell’altro campo l’UDEUR oggi alleata con il centrodestra e l’UDC più altre formazioni di centro superano abbondantemente il 15 % senza contare alcune civiche riferibili più o meno al Terzo Polo.
Le indicazioni elettorali sono quindi assai chiare e dovrebbero consolidare una strategie delle alleanze del PD diversa, in cui inclusioni ed autoesclusioni siano fatte sulla politica e non sul richiamo ad un frontismo parolaio e massimalista. Pensare che la questione si possa risolvere includendo un altro parolaio e massimalista a quelli che già affollano l’attuale centrosinistra non solo è sbagliato ma criminale.

Il diritto all’odio non esiste…

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Dopo l’episodio di Milano con il lancio della statuetta in faccia a Berlusconi nel 2009, Marco Travaglio scrisse sul blog di Beppe Grillo un articolo con il quale parlava di “diritto all’odio”. Il giornalista di destra diventato icona di certa sinistra forcaiola scriveva: “Chi l’ha detto che non posso odiare un politico e augurarmi che il Creatore se lo porti via al più presto? Un politico si vota, non si ama. In politica non esiste l’amore, non c’è sentimento”. E ancora. «Non vedo per quale motivo – continuava l’ex giornalista de “Il Borghese” – qualcuno non possa odiare Berlusconi. L’importante è che si limiti ad odiarlo senza fargli nulla di male”.
Ora io credo che questa affermazione sia rivelatrice di un vero e proprio veleno che si è diffuso nella politica e nella società italiana, in una parte delle sue classi dirigenti, della cultura e della cosiddetta “intellighenzia” radical italiana, un veleno che va combattuto con decisione e senza tentennamenti.
La realtà sociale del Paese è infatti drammatica. Interi pezzi di società sono sospinti sotto la soglia della povertà, diritti che si credevano acquisiti vengono di giorno in giorno negati e fatti a pezzi.
In questo contesto la politica e le classi dirigenti nel loro complesso devono assumersi la responsabilità di indicare soluzioni non di soffiare sul fuoco o versarvi benzina.
Non esiste il “diritto all’odio” perché l’odio è la negazione di ogni diritto. Chi fomenta l’odio, anche quando non si rende colpevole di violenze, e soprattutto se lo fa dall’alto della sua condizione di “privilegiato” da decine di migliaia di euro al mese (spesso molto di più dei tanti bistrattati politici) che gioca sulla disperazione di tanti, diventa colpevole indiretto delle violenze che da quell’odio inevitabilmente si generano.
In Italia è già successo, purtroppo, e i rischi che tutto si ripeta ci sono tutti come dimostrano i fatti di Roma. Non si tratta di ripercorrere la categoria dei “cattivi maestri”, di invocare censure, ma di avviare una campagna politica e culturale contro chi irresponsabilmente si fa promotore di una visione manichea e distruttiva della politica dal tepore dei salotti o per il gusto della tirata demagogica nei talk show televisivi, una visione che distrugge la democrazia nei suoi stessi principi fondativi.
Io trovo significativo che i manifestanti pacifici sabato abbiano cercato di espellere quelli violenti dal corteo. E’ un fatto importante che, a mia memoria, non era mai successo. Segno che gli anticorpi ci sono e vanno incoraggiati e moltiplicati. Avendo il coraggio di contestare a gente come Travaglio e a tanti altri come lui le innumerevoli e irresponsabili parole che assai spesso propagano a piene mani.
Perché nessun dissenso, per quanto profondo e radicale esso sia, può giustificare l’odio politico. Perché la democrazia è nata proprio per regolare i conflitti e bandire l’odio dai rapporti civili e politici e non il contrario, altro che balle.

Piperno dalla “geometrica potenza” a “un evento dalla bellezza sublime”.

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Questa mattina, sulle pagine di un giornale locale è apparso un articolo del prof. Franco Piperno in vista del decimo anniversario della strage delle Torri Gemelle a New York.
Con i toni lirici di cui è capace ha teorizzato lungamente sul fatto che l’11 settembre 2001 è stato “un evento dalla bellezza sublime”, definendo i terroristi “intellettuali arabi” che hanno agito contro la “Grande Babilonia”.
Per Piperno, dunque, “l’undici di settembre, nel decennale di quell’evento dalla bellezza sublime, chineremmo, se solo le avessimo, le nostre bandiere per pietà verso gli americani morti per caso e ad onore degli intellettuali arabi – a noi, per altro ostili, ma certo umani, troppo umani – che hanno spappolato gli aerei catturati contro le Torri Gemelle, condensando, in quel gesto collettivo, la volontà generale delle moltitudini arabe”.
Il prof. di Arcavacata non è nuovo a certe uscite: ricordiamo ancora quando, appresa la notizia del rapimento di Aldo Moro e della strage della sua scorta, parlò della “geometrica potenza” di quell’azione.
Sarebbe semplice, in questa sede, contestare a Piperno che è davvero azzardato sostenere che gli “intellettuali” di Bin Laden interpretino davvero “la volontà generale delle moltitudini arabe” proprio nel momento in cui, in quasi tutti i Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente le stesse moltitudini scendono in piazza per rivendicare la tanto “occidentale” democrazia contro regimi dittatoriali e tirannici, peraltro per lungo tempo buoni amici della “Grande Babilonia”.
Sarebbe altrettanto semplice dire che non ci può essere alcuna comprensione né tantomeno empatia con persone che, in nome di una ideologia religiosa peraltro distorta, non esitano a massacrare innocenti e come questo tragico fatto non sia dissimile dalle stragi perpetrate da dittature rosse e nere nei decenni trascorsi.
Allo stesso modo sarebbe facile contestare l’assurdo accostamento dell’11 settembre alla “decapitazione di Luigi Capeto” all’”assalto bolscevico del Palazzo d’Inverno”, alla “Sorbona occupata nel ‘68” , alla “caduta del Muro di Berlino”. Sarebbe facile, ma assolutamente inutile. Così come sarebbe inutile ricordare che Piperno è stato assessore della Giunta nel periodo in cui Giacomo Mancini dedicò una delle piazze principali di Cosenza proprio all’XI settembre e che difficilmente in Egitto, Libia o Iraq avrebbe potuto scrivere e dire le cose che scrive e dice, che gli USA dove viene eletto Obama, a dispetto di tutti gli errori ed orrori della sua storia, sono comunque da preferire a regimi in cui si reprime ogni dissenso, si costringono le donne ad una condizione di schiavitù sottoponendole a terribili mutilazioni, in cui alcune frange integraliste non esitano ad armare giovani con il tritolo per uccidere donne e bambini, ecc..
Piperno è così, da sempre, e tuttavia non si possono lasciare passare le sue affermazioni sotto silenzio. Non contestargliele o sottovalutarle sarebbe un errore forse ancora più grande. Non si può non ribadire che l’11 settembre, a dispetto dei tanti mali di cui USA e Occidente sono spesso portatori, è stato un evento tragico, l’ennesimo esempio di come il cammino verso pace, giustizia, democrazia sia per l’umanità ancora arduo e difficile. Che proprio quella assurda strage chiama l’Occidente a maggiori responsabilità, a perseguire fino in fondo la lotta per l’affermazione dei valori dell’uomo che presero l’avvio non tanto dalla decapitazione di Luigi Capeto ma dalla presa della Bastiglia. Che questa lotta è ancora aperta, che certamente avrà mille contraddizioni delle quali qui, in questo Occidente così complesso, comunque si può discutere e battersi per correggerle (e non mi pare poco). Una lotta che deve continuare perché non c’è alternativa alla democrazia, per quanto imperfetta essa possa essere.
L’11 settembre non ha portato più progresso, ma solo più paura, più diffidenza, più conflitto, rendendo il mondo più insicuro e scatenando nuove guerre, nuove tragedie. Ecco perché non ci vedo nulla di bello e di sublime.

Stiamo attenti che la fine di Berlusconi non trascini con sé anche questo centrosinistra.

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La fine del lungo ciclo di governo di Berlusconi sembra essere ormai giunta. Avviene nel peggiore dei modi per il Cavaliere, assediato da inchieste giudiziarie, da gossip velenosi, dal ludibrio internazionale.
Al di là del fatto se riuscirà a mantenere una maggioranza parlamentare come gli è riuscito finora è del tutto evidente che la sua capacità di parlare al cuore ed alla pancia degli italiani, con quel mix di populismo e di sovversivismo dall’alto che ne ha contraddistinto la sua presenza in oltre tre lustri di vita politica italiana, è ormai esaurita.
Il leader è vecchio, stanco, persino un po’ patetico nel suo disperato tentativo di mostrarsi giovane e simpatico. L’assedio delle procure è indiscutibile, così come l’accanimento dell’ormai la quasi totalità dei media e dei cosiddetti “grandi poteri” (che pure, in fase alterne, lo avevano sostenuto), ma il suo tradizionale vittimismo che pure era riuscito a fargli catalizzare la maggioranza dei consensi elettorali, non regge più.
Gli italiani più che il discorso moralistico della miriade di indignati da salotto che affollano i talk show e le colonne dei giornali si sono finalmente convinti che il vecchio Silvio non è un uomo di Stato, non è capace di governare e di dare risposte ai problemi urgenti di un Paese che rischia di affondare nel gorgo di una crisi generale che in Italia è però aggravata proprio dalla assoluta inadeguatezza delle sue classi dirigenti. Se erano disposti a perdonargli tutto, anche le sue stravaganze e la sua irrequietezza sessuale (ma quando mai questa ha contato qualcosa nella cattolica e gesuitica Italia ?), non sono disponibili a perdonargli la sua inconsistenza politica, la sua assoluta incapacità di governare un Paese complesso avviato sulla strada di un inesorabile declino.
Nel centrodestra una partita si è aperta per la successione. Bisognerà vedere se questa sarà cruenta e lascerà morti e feriti oppure sarà politicamente guidata come l’elezione di Alfano sembra voler presagire. Se Berlusconi non fosse Berlusconi molto probabilmente un nuovo governo di centrodestra sarebbe già stato varato con una nuova leadership e una nuova composizione di coalizione. E’ la presenza di Berlusconi che impedisce la formazione di un nuovo governo a guida PDL con il Terzo Polo e Casini dentro. Allo stesso modo è la presenza di Bossi ad impedire, almeno finora, che una nuova leadership si affermi nella Lega.
Il futuro di quel campo, e se ne sono accorti soprattutto quelli che lo occupano, sta proprio nella possibilità che questo nuovo assetto del centrodestra finalmente si affermi, con buona pace degli antiberlusconiani di professione.
In questo senso io credo che non sia scontato che il dopo Berlusconi sarà di centrosinistra. Perché il centrosinistra attuale, al di là degli sforzi pure generosi di Bersani, è completamente ritagliato sull’antiberlusconismo.
Un’alleanza classica (PD, IDV e SEL) con il terzo polo autonomizzato, oggi vincerebbe le elezioni solo se il leader dell’altro schieramento (PDL e Lega) resta Berlusconi. Un altro leader nel centrodestra renderebbe questa coalizione attrattiva per le forze centriste già in questo parlamento, figuriamoci in un momento elettorale. Del resto come leggere gli aperti tentativi di varo di un governo “tecnico-tecnocratico” sponsorizzati da Confindustra e Marchionne che vorrebbero alla guida un Montezemolo o un Monti ?
Il problema per il Centrosinistra, dunque, è uscire da questo imbuto e trovare un nuovo assetto politico e programmatico che non può che essere riformista e modernizzatore.
Nell’opposizione vasta che si è coagulata contro il premier non c’è, infatti, solo il voto tradizionale della sinistra, ma anche quello di ampi settori moderati che sono delusi da Berlusconi ma che continuano a non amare la sinistra per come oggi si configura.
Senza Berlusconi lo schema di alleanze attuale attorno al PD non regge né politicamente né programmaticamente, inutile farsi illusioni. Non regge anche perché la sua leadership allargata tutto appare tranne che portatrice di innovazione e di modernizzazione. Né il problema si risolve soltanto allargando, cosa assai difficile in verità, la coalizione all’UDC, nel senso che ne verrebbe fuori una maggioranza numerica ma non politica come è avvenuto con l’Unione di Prodi.
In questo quadro il PD deve compiere uno sforzo ancora maggiore di adeguamento del suo profilo riformista e attorno a questo costruire le alleanze, atteso che l’antiberlusconismo non reggerà più, anche se Berlusconi dovesse resistere fino al 2013 e guidare la coalizione alle elezioni.
Cosa intendo per questo adeguamento ? Intendo soprattutto la necessità di fissare alcuni punti fermi: riforma fiscale, riforma del welfare, riforma della giustizia, della scuola e dell’università, riforma istituzionale (a cominciare dalla legge elettorale), nuova politica per il Mezzogiorno. Su ciascuno di questi argomenti, purtroppo, lo schieramento nel quale oggi ci collochiamo è, purtroppo, diviso. Il PD deve chiamare tutti, alleati attuali e potenziali, forze economiche e sociali, il Paese intero nella sua articolazione più ampia e complessa, ad un confronto stringente e non ideologico su questi temi.
Solo così, credibilmente agli occhi del Paese, potrà candidarsi a succedere non solo a Berlusconi, ma al centrodestra e al sistema di interessi che esso, nonostante lo stesso Berlusconi, continua a rappresentare.
Altrimenti la fine di Berlusconi trascinerà con sé anche il centrosinistra.

Dopo quelli di Passanante seppelliamo anche i resti di Villella per chiudere definitivamente con il razzismo antimeridionale

Passanante e Villella
Giovanni Passanante era un anarchico che nel 1878 attentò, piuttosto maldestramente, in verità, alla vita del re Umberto I a Napoli. Passanante era un pastore di greggi di Salvia di Lucania (oggi Savoia di Lucania) dove era nato nel 1849. Da lì, ultimo di dieci figli di una famiglia povera, si era trasferito a Potenza dove aveva trovato lavoro come sguattero in un’osteria. Grazie all’aiuto economico di un suo paesano, un capitano dell’esercito, poté completare la sua istruzione.
Tra letture della Bibbia e degli scritti di Giuseppe Mazzini si accostò progressivamente alle idee anarchiche e socialiste fino a maturare il proposito di uccidere il re. Si lanciò sulla sua carrozza mentre era in visita a Napoli, fingendo di dover porgere una supplica e colpì di striscio Umberto I con un coltellino di meno di 10 cm. Prontamente bloccato e arrestato fu sottoposto a tortura per giorni nel tentativo di fargli confessare i complici di un inesistente complotto.
In Italia si scatenò, anche in seguito ad un altro attentato anarchico a Firenze, una feroce repressione. Passanante fu condannato a morte, ma la pena capitale fu commutata dal re in ergastolo.
Il sindaco di Salvia di Lucania propose il cambiamento del nome del paese in quello attuale proprio come forma di espiazione per aver dato i natali al tentato regicida. Parenti e omonimi di Passanante furono costretti ad emigrare.
Intanto l’anarchico era stato rinchiuso nel carcere di Portoferraio sull’isola d’Elba, in una cella stretta e priva di latrina dove sopravvisse in condizioni terribili, perdendo completamente la ragione. Fu grazie all’interessamento di alcuni deputati tra cui il repubblicano Agostino Bertani, che Passanante fu trasferito in un manicomio criminale dove morì nel 1910.
Ma le sue vicissitudini non erano finite: dopo la morte fu decapitato e la sua testa e il cervello furono usati per gli studi sulla devianza criminale inaugurati da Cesare Lombroso. Questi miseri resti rimasero presso il Museo Criminologico dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia di Roma fino al 2007, quando sono stati pietosamente seppelliti a Savoia di Lucania grazie all’interessamento del ministro Oliverio Diliberto prima e di Clemente Mastella poi. Decisione che fu presa non senza polemiche in un paese che riesce a dividersi anche su fatti di oltre un secolo fa.
Ma è utile ricordare che tra i resti identificati e conservati nel Museo lombrosiano di Torino ci sono anche quelli di Giuseppe Villella, un brigante calabrese nato a Motta Santa Lucia e morto in carcere dopo una lunga prigionia. Lombroso stesso ne aveva asportato il cranio per trovare prove alla sua teoria sulla devianza criminale come risultante di una degenerazione fisica dovuta alla presenza della cosiddetta “fossetta occipitale”, scoperta per la prima volta proprio nel cranio di Villella.
Per la cronaca, nonostante aver esaminato centinaia di cadaveri di criminali la fossetta era tutt’altro che presente in tutti i crani, a dimostrazione dell’assoluta inconsistenza di questa teoria da un punto di vista scientifico. Nondimeno le teorie lombrosiane ebbero larga eco e diffusione anche sotto forma di vulgata per sostenere l’idea che la devianza era innata in alcuni individui rispetto ad altri, in alcuni gruppi etnici rispetto ad altri. Nel caso di Passanante la devianza era addirittura presente nella duplice forma dell’adesione alle idee anarchiche e socialiste e alla condizione di meridionale.
Le teorie dello studioso veronese sono state completamente smentite dagli studi successivi, ma, ripetiamo, ebbero larga eco anche all’estero, dove erano diffuse interpretazioni distorte del darwinismo Si pensi, ad esempio, ai romanzi di Rudyard Kipling, tutti tendenti a dimostrare la superiorità dell’uomo bianco e la giustezza della sua missione civilizzatrice che trovava riscontro nell’espansione neocolonialista e imperialista a cavallo tra ‘800 e ‘900.
In Italia, assai in ritardo nei suoi tentativi di espansione coloniale (tra l’altro in quegli anni finiti tragicamente a Dogali e ad Adua), i “neri” erano individuati nei meridionali.
Quanto di queste teorie oggi sopravvivono nella cultura politica italiana e in forme abbastanza trasversali oltre alla Lega è, purtroppo, sotto gli occhi di tutti. L’idea che il Sud sia abitato da una razza inferiore continua ad albergare e a motivare concrete scelte di governo oltre che gran parte del circuito mediatico nazionale.
In questo quadro chiedere di dare sepoltura ai resti di Villella, così come è stato fatto per quelli di Passanante, rappresenta qualcosa di più che una doverosa forma di elementare pietà. Significa chiudere simbolicamente con il passato e, nello stesso tempo, dare una risposta a coloro che continuano a guardare al Sud come ad un problema di “civilizzazione”.
Altri Paesi, peraltro giunti alla democrazia molto più tardi di noi, l’hanno fatto: le teste dei “briganti” brasiliani, ad esempio, che erano conservate nel museo di Salvador de Bahia sono state anch’esse seppellite dopo appena trent’anni dalla conclusione della loro drammatica vicenda umana
Sinceramente provo un po’ di vergogna nel sapere che i poveri resti di un uomo continuino ad restare esposti in un Museo della democratica Repubblica italiana.
Si accolga quindi la richiesta del suo comune di nascita, Motta Santa Lucia, e gli si dia degna sepoltura.

Congresso PD in Calabria: è la democrazia bellezza.

Logo del PD

Tutti oggi nel PD calabrese chiedono il congresso: fa piacere che quanto gridavamo in solitudine sia oggi patrimonio di tutti. Sappiamo bene, tuttavia, che alcuni, sotto sotto, preferirebbero il contrario e  magari cercano di alimentare conflitti per dare una rappresentazione di un PD lacerato più di quanto sia realmente per continuare a vivere di rendita senza alcun mandato democratico. E’ un giochino tanto scoperto quanto stupido.

La dialettica interna è un dato costitutivo di un partito democratico e i congressi si fanno proprio per confrontare tesi e posizioni politiche diverse. Quella che prenderà più voti governerà il partito. A quella o quelle che perderanno spetterà comunque il compito di concorrere, partendo dalle idee espresse, alla crescita complessiva del partito. E’ la democrazia bellezza. E la democrazia fa paura solo a chi democratico non è.

Si faccia dunque questo benedetto congresso con tutte le garanzie democratiche che il nostro Statuto prevede. Magari diamocene anche di nuove e più stringenti, ma ridiamo la parola ai nostri iscritti e ai nostri elettori.

Affidiamoci dunque a loro con fiducia e con rispetto: sono spesso molto più saggi di noi e comunque solo a loro spetta il compito di decidere.

Purché, però, una volta che hanno deciso, non si parli di potentati, brogli, e popolo pecorone. A quel punto le pernacchie ci sommergeranno.

 

Basta con le ipocrisie sul caso Penati.

Un maledetto imbroglio
Dopo l’ipocrita decisione della Commissione di Garanzia del PD (qualche TV l’ha definita freudianamente Commissione giustizia), apprendiamo che essere iscritti al PD significa rinunciare ai diritti individuali previsti dalla nostra Costituzione. Insomma, abbiamo riscoperto l’uso dei tribunali di partito. Se non fosse tragico direi che è farsesco.
Una decisione assunta solo per tentare di dare una risposta alla vandea giustizialista che imperversa da giorni, strana e inutile visto che il povero Penati aveva già annunciato la sua autosospensione.
Ma non basterà neanche questo: la Vandea come il Terrore si nutrono di sangue sempre fresco, ricordiamocelo.
Si aprirà presto la caccia al politico in quanto tale. Arriverà il momento per cui i politici, tutti senza eccezione, anche i più oscuri segretari di sezione, saranno crocefissi in sala mensa (ricordate l’incubo fantozziano ?) e si spianerà la strada, perché questo è il vero obiettivo, al governo dei tecnici e dell’impresa. Che poi questi tecnici e imprenditori siano spesso più imbroglioni e corrotti dei politici, poco importa. Del resto Berlusconi non è forse un imprenditore sceso in campo contro la vecchia politica ?

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