Gabriele Petrone

Ragazzi, giuro che se sento parlare di rinnovamento chiamo i carabinieri…

Carabinieri-in-alta-uniforme

Scelgo questo titolo volutamente provocatorio per cercare di esprimere un concetto che mi sta molto a cuore dopo la “batosta” di domenica scorsa. Dico subito quindi che la sinistra ha bisogno come il pane di un profondo e radicale rinnovamento dei suoi gruppi dirigenti e, soprattutto, di una grande innovazione politica e programmatica.

Tuttavia trovatemi uno in Calabria, in Italia e nel mondo che non dica la stessa cosa con toni enfatici ed apodittici anche tra coloro che di questa batosta sono i principali responsabili.

Si, perché parlare di rinnovamento è la cosa più facile di questo mondo ed è il modo migliore per mantenere tutto esattamente com’è. I più grandi proclamatori di novità sono, in realtà i peggiori conservatori perché intendono il rinnovamento sempre a partire dagli altri, mai da se stessi.

La vicenda calabrese del PD ne rappresenta la plastica dimostrazione: sono mesi che novelli giacobini predicano il rinnovamento, agitano questioni morali e acuiscono le profonde fratture del gruppo dirigente solo ai fini di ritagliarsi un posticino nel sempre più residuo e marginale bacino del PD. Poco importa se molti di questi predicatori sono cresciuti all’ombra di coloro che oggi considerano il male assoluto, se si sono ingrassati con incarichi e prebende o comodi posticini in liste bloccate.

Ma, francamente, del destino di questi sono poco preoccupato perché gli elettori li hanno già giudicati e pesantemente bocciati.

Sono invece preoccupato del fatto che, anche rimuovendoli dai posti che occupano risolveremo solo parte dei nostri problemi. Si tratta di una condizione necessaria ma non sufficiente.

Perché il rinnovamento, quello vero, non riusciremo a farlo se non costruiremo finalmente il PD, vale a dire un partito di massa, inclusivo e capace di promuovere davvero nuove classi dirigenti sul terreno dell’innovazione politica. Un partito che tenga tutti dentro, vecchi e nuovi e promuova davvero i nuovi sulla base della selezione democratica, nel fuoco della battaglia politica consentendo anche all’ultimo dirigente dell’ultimo circolo di poter crescere ed affermarsi senza cooptazioni ma in base alle cose che sa esprimere e sa fare. Perché sulle macerie si è sempre costruito poco, se non nulla. Perché il rinnovamento senza innovazione è solo nuovismo senza contenuti destinato ad essere spazzato via al primo alito di vento. Perché la lotta politica interna ha senso e si motiva se si è portatori di progetti, di proposte, di visioni strategiche che vadano al di là delle pur legittime ambizioni personali.

Rinnovare non significa cooptare in posti di responsabilità qualche ragazzo che serva da vetrina, ma consentire a migliaia di ragazzi di crescere e produrre politica insieme a chi ha maturato esperienza ed anche errori. Così si faceva nei vecchi partiti, così dovremmo fare nei nuovi (dopo averli costruiti, ovviamente).

Il voto di domenica e lunedì ci consegna intanto due problemi grandi quanto una casa: un PD da prefisso telefonico ed un centrosinistra minoritario, marginale e parolaio incapace di porsi come interlocutore credibile e di governo per combattere l’egemonia del centrodestra in questa regione.

Il centrodestra vince perché regge la sua alleanza con l’UDC, alleanza frutto della miopia di quei dirigenti che consentirono a Loiero di ricandidarsi alla guida di una coalizione ormai minoranza in Calabria convinti che la sola gestione del potere regionale fosse sufficiente a farci vincere. Nel “Rendano” di Cosenza ancora non si sono spenti gli echi di una manifestazione convocata dagli strateghi cosentini (gli stessi della sconfitta cosentina, rossanese e sangiovannese) che urlavano “Agazio, sei l’unico candidato possibile” nelle stesse ore in cui Bersani tentava l’interlocuzione con l’UDC che ci avrebbe fatto vincere davvero.

Ora tutto è più difficile, per cui è davvero assurdo dividersi tra chi urla più forte “rinnovamento, rinnovamento”. E’ venuto invece il momento innovare davvero interrogandoci fino in fondo sul come.

 

Non ci sto…

barbari 2
Non ci sto alla chiamata tardiva alle armi contro i barbari alle porte. Intanto perché chi dovrebbe difenderci dai barbari è barbaro anch’esso ed è già dentro le mura.
Non ci sto al ragionamento semplicistico che fanno alcuni, molti in palese malafede, di votare a sinistra contro la destra, quando la sinistra che mi propongono è fatta di una persona in palese conflitto di interessi che sta facendo una campagna elettorale che mutua il peggiore berlusconismo di cui aveva tentato, disperatamente, di essere il rappresentante.
Non ci sto a farmi intruppare con chi sta conducendo una campagna elettorale vergognosa, nella quale si agitano dossier come fa la Moratti contro Pisapia a Milano, con chi si proclama garantista per sé e fa il forcaiolo con gli avversari politici e non si confronta sui temi dello sviluppo di questa nostra amata città.
Non ci sto ad avallare con il mio voto una operazione di palazzo di qualche dirigente di partito che prima fa perdere il PD e poi pretende di rappresentarlo e dirigerlo.
Non ci sto ai richiami all’unità da parte di chi per primo ha frantumato, spaccato, lacerato il PD e il centrosinistra per salvaguardare il proprio ristretto orticello di potere e già ragiona di poltrone e assessorati per sodali e familiari.
Non ci sto a farmi fare la lezione da chi predica il rinnovamento e lo svecchiamento (sempre per gli altri, per carità) solo per legittimare la sua permanenza al potere. Da chi ha sostenuto il candidato alternativo al PD e si permette di darci lezioni di coerenza.
Ieri Damiano Covelli ha dato una lezione a tutti: non mi importa se sarò eletto o meno, la mia firma sotto questa mistificazione non ce la metto.
Il centrosinistra a Cosenza ha già perso il 16 e il 17 maggio scorsi. Al ballottaggio sono andati due candidati di centrodestra.
Io non voterò nessuno dei due.
Barbari

De Magistris e il sepolcro imbiancato…

La casta 2

In questi anni è stato perpetrato un vero e proprio inganno nei confronti di tanti cittadini onesti e desiderosi di vero cambiamento.

Questo inganno ha un nome e cognome, si chiama Luigi De Magistris. Con inchieste flop costate milioni di euro che pesano sulle tasche dei cittadini e basate su fantasiosi teoremi si è costruita l’immagine di giustiziere senza macchia e senza paura, il moralizzatore di una classe politica e imprenditoriale corrotta.

Centinaia di persone innocenti sono state trascinate sulla gogna mediatica, processi televisivi condotti dai campioni del giustizialismo mediatico Santoro e Travaglio hanno emesso sentenze e comminato condanne.

Altri giudici, dopo anni di fustigazione, hanno detto che in quanto era contenuto nelle accuse di De Magistris nulla era vero, nulla stava in piedi, non c’erano neanche i reati ed hanno restituito onore e dignità a tanti innocenti che, tuttavia, non saranno mai ripagati di quanto hanno sofferto (insulti, carriere stroncate, rovina economica, pubblico ludibrio, ecc.).

Intanto il nostro ha lasciato la magistratura e si è fatto eleggere al parlamento europeo sotto le insegne di Di Pietro con il voto di tanti che avevano creduto alla sua falsa immagine. Un imbroglio che diventa oggi ancora più palese quando il nostro utilizza l’immunità parlamentare di quella che lui chiama “casta” per sottrarsi ai processi per diffamazione di coloro che aveva ingiustamente accusato.

Lui non è casta, gli altri lo sono, lui ha mandato centinaia di persone sotto processo con accuse false ed oggi si sottrae ai processi utilizzando i privilegi della casta che tanto disprezza in pubblico.

Un sepolcro imbiancato, un vero e proprio inganno ai danni di coloro che avevano creduto in lui…

 

Quattro anni fa moriva Giulio Grandinetti…Il ricordo dei suoi ultimi giorni nella bufera della bufala “Why Not”.

Giulio Grandinetti con Enza Bruno Bossio

Giulio Grandinetti con Enza Bruno Bossio


Il 22 aprile del 2007, dopo una breve e micidiale malattia si spegneva Giulio Grandinetti. Imprenditore nel ramo assicurativo e dirigente politico sin dalla più tenera età nel PCI-PDS-DS, era stato anche amministratore delegato de “Il Quotidiano della Calabria”, contribuendo notevolmente all’affermazione di questa testata nel panorama editoriale calabrese. Negli ultimi anni aveva svolto l’incarico di capo struttura del Vice Presidente della Giunta Regionale, Nicola Adamo.
Giulio era uomo di specchiata dirittura morale, con un rigore che gli era riconosciuto da tutti. Apparteneva a quella schiera di persone che stanno sempre dalla stessa parte e che concepiscono il loro impegno come servizio, in qualunque ruolo sono chiamati.
Fu nella veste di collaboratore di Nicola Adamo che ricevette, nell’ambito della roboante inchiesta Why Not dell’allora PM De Magistris, un avviso di garanzia per una presunta associazione a delinquere insieme allo stesso Nicola Adamo e ad Enza Bruno Bossio.
In verità, in quel settembre del 2006 il Procuratore della Repubblica di Catanzaro, dott. Lombardo, smentì che ad essere raggiunto da avviso di garanzia fosse il Giulio Grandinetti collaboratore di Nicola Adamo, ma un omonimo commercialista di Cosenza che subì anche una minuziosa perquisizione del suo studio e della sua abitazione.
Pochi giorni dopo, Giulio già malato, il Procuratore Lombardo fu smentito da De Magistris che invece individuava proprio nel nostro Giulio l’obiettivo della indagine.
Cos’era successo ? Ai fini di mettere in piedi l’accusa di associazione a delinquere si tirò dentro Giulio Grandinetti senza neppure accorgersi che era la persona sbagliata.
Si parlò della fantomatica Loggia affaristico-massonica di San Marino e si finì per coinvolgere anche Prodi e Mastella, fatto che fu determinante per la caduta dell’allora governo di centrosinistra.
Tutto ciò diede al PM De Magistris una straordinaria proiezione mediatica che lo portò nel 2009 al Parlamento Europeo, in tempo per vedere tutte le sue inchieste sciogliersi come neve al sole, mentre persone perbene venivano additate al publbico ludibrio.
Nel novembre 2009 il GIP archiviò tutte le accuse a carico di Giulio Grandinetti collaboratore di Nicola Adamo per la loro insussistenza, restituendogli, purtroppo postumi, onore e dignità.
Mi sembrava giusto ricordare tutto ciò nell’anniversario della sua morte per riflettere, ancora una volta, su quanto è successo negli ultimi anni di ubriacatura giustizialista.

COMUNALI COSENZA: NON SOLO IL SINDACO, SI ELEGGE ANCHE IL CONSIGLIO…

Consiglio Comunale di Cosenza
Il 15 maggio andremo a votare per rinnovare Sindaco e Consiglio Comunale della nostra città…L’interesse dei media e dei cittadini è, giustamente, attratto dalla questione dei Sindaci e delle coalizioni e tuttavia il problema di quale Consiglio eleggeremo non è questione trascurabile, anzi.
Da quando esiste il sistema maggioritario (1993) non possiamo non rilevare che la qualità complessiva degli eletti nella nostra città (ma il problema è assolutamente generale) è di molto calata.
Le cause sono diverse: crisi dei partiti, preferenza unica, riduzione del ruolo del Consiglio rispetto a Sindaco e Giunta, impoverimento politico-culturale complessivo della società per cui la rappresentanza che esprime non può che rispecchiarla, ecc..
In particolare la preferenza unica rappresenta un elemento di distorsione, soprattutto a livello amministrativo, dove la caratterizzazione politica appare certamente più sfumata, per cui se si candida il miglior professionista o anche Albert Einstein è quasi certo di non essere eletto e di restare dietro al solito collettore di voti che si aggrega in un gruppo familiare o in un quartiere o in un condominio particolarmente popoloso.
Intendiamoci, non si tratta qui di fare distinzioni di classe o culturali, in democrazia contano i numeri e i consensi, e il voto è la massima espressione della volontà popolare, anche quando il risultato non ci piace.
Tuttavia, non si può non rilevare come questo impoverimento determini una rappresentanza “professionalizzata” al ribasso, con consiglieri che ritengono indifferente l’istanza politica e culturale per la quale si candidano perché al massimo sono espressione di ristrettissimi interessi, delegando la politica al Sindaco con il quale tutto al più intavolano una contrattazione al ribasso per garantire il loro sostegno in Consiglio. Una dissociazione tra politica e rappresentanza che sta creando danni notevoli innanzitutto alla politica.
Lo spettacolo di consiglieri che si candidano ora con uno ora con l’altro schieramento non è solo frutto della vecchia e mai tramontata pratica del trasformismo ma anche del restringimento progressivo della domanda politica dell’elettorato a livello locale, e diciamoci la verità, non fa più neanche scandalo…
Molti, quando discuto di queste cose dicono: “i partiti facciano selezione e non candidino personale politico siffatto”, affermazione giusta, non c’è dubbio, ma irrealistica stante l’attuale sistema elettorale. Quale partito, al fine di concorrere alla vittoria, può rinunciare alla candidatura di questo o quel consigliere che potenzialmente è portatore di un certo numero di preferenze al suo progetto politico ? A maggior ragione come potrebbe farlo un candidato Sindaco ?
Il problema sta, piuttosto, nella necessità che anche nelle assemblee elettive torni la politica, che il Consiglio Comunale diventi davvero il luogo di massima rappresentanza di una comunità e di tutte le sue istanze.
La questione è dunque, nelle mani dei cittadini, nella maturità delle loro scelte, nel comprendere che non eleggono solo un sindaco, non danno il voto solo ad un partito, ma individuano una rappresentanza che deve necessariamente andare al di là degli interessi di famiglia, di quartiere, di condominio.
Saper dire di no al proprio parente, amico, compare, ‘mmasciature, chiedere che chi si sceglie come consigliere sappia rappresentare sicuramente una coalizione e un partito ma anche gli interessi generali della città è la vera sfida anche in queste elezioni. Una sfida aperta…

Malagiustizia, lombrosismo, processo mediatico. Il caso di Ciccio e Tore di Gravina di Puglia

Ciccio e Tore

Pubblicato su “Processo Mediatico” marzo 2011
Il tema giustizia è assai controverso e dà spesso origine a scontri epocali tra i cosiddetti giustizialisti e i cosiddetti garantisti.
La presenza di Berlusconi, politico che sulla giustizia spesso proclama un garantismo peloso che egli traduce con richiesta di impunità e l’idea che il consenso lo metta al di sopra delle regole dello Stato di diritto non aiuta una discussione serena, anzi la ideologizza fino all’estremo.
Eppure il problema giustizia in Italia esiste a prescindere da Berlusconi ed è un tema che riguarda i cittadini comuni e non solo i politici e i potenti.
Porterò un esempio concreto per comprenderci, un fatto che non riguarda un politico ma una persona comune, un lavoratore di Gravina di Puglia accusato di una cosa terribile, di aver ucciso i suoi figli, forse lo ricorderete, ne parlarono TV e giornali, una cosa terribile.
Due bambini, Ciccio e Tore, assai vivaci come ce ne sono tanti, come potrebbero essere i nostri figli, appartenenti ad una famiglia di separati in lite fra di loro, ad un contesto familiare difficile, spariscono la sera del 5 giugno del 2006.
Il padre, Filippo Pappalardi, li cerca tutta la notte e la mattina va dai carabinieri a denunciarne la scomparsa e si reca al lavoro.
Le ricerche si sviluppano tutto intorno a Gravina e arrivano fino in Romania nell’ipotesi del rapimento da parte dei soliti “zingari”.
Nel frattempo i due genitori separati cominciano ad accusarsi vicendevolmente di essere responsabili della sparizione dei figli. Comincia la caccia al “mostro” in una comunità che si trova proiettata sulla ribalta televisiva in cui tutti esprimono opinioni a cronisti disponibili a raccogliere qualsiasi voce, qualsiasi congettura.
Perfino il parroco del paese si lascia andare ad analisi da investigatore e invita ad “indagare sulla madre”, che sembra troppo “fredda” e indica persino due piste: “o lei o la malavita”.
La pressione mediatica cresce, le immagini dei due bambini imperversano su giornali e TV, l’Italia è commossa e attonita, si appassiona ad una vicenda di violenza, di degrado familiare, si alimenta nei talk show e nella morbosa ricerca del colpevole, l’ipotesi della sparizione accidentale, dell’allontanamento accidentale o dell’incidente fortuito sparisce, non tira mediaticamente.
Gli inquirenti ne sono travolti, trascurano le ricerche nei posti più ovvii, intanto quelli dove i due ragazzini sono stati visti l’ultima volta, si convincono della tesi del delitto maturato in famiglia. Vengono compiuti scavi attorno alla casa della madre, Rosa Carlucci, perché una segnalazione indica che lì sarebbero stati sepolti i cadaveri dei due bambini. Intanto tutte le TV trasmettono un video in cui si vede il piccolo Francesco ripreso da una telecamera di sorveglianza di una banca del paese la sera della scomparsa.
Il 7 settembre del 2006 Filippo Pappalardi riceve un avviso di garanzia dopo essere stato iscritto nel registro degli indagati per sequestro di persona. Emilio Marzano, procuratore della Repubblica di Bari, riferisce inoltre di perquisizioni e del sequestro a Pappalardi dell’auto, del camion e di alcuni terreni sui quali si stanno svolgendo ricerche accurate con particolari tecnologie.
Spuntano inoltre testimonianze come quella di un bambino, compagno di giochi di Ciccio e Tore, che riferisce che la sera della scomparsa stavano giocando a palloncini d’acqua davanti alla Cattedrale di Gravina e che il padre li avrebbe raggiunti, sgridati e caricati in macchina con lui portandoli via, circostanza sempre negata da Pappalardi.
L’avvocato di Pappalardi, inoltre, annuncia l’intenzione del suo assistito di presentare una formale denuncia contro un dirigente della squadra mobile di Bari, Luigi Liguori, per metodi non ortodossi nella conduzione delle testimonianze di persone informate dei fatti.
Il 24 ottobre 2006 si aggiunge anche la dichiarazione del Sindaco di Gravina che dice che i due bambini sono vivi secondo una fonte che non può rivelare.
Il 27 novembre 2007, dopo ben 17 mesi di indagine, Filippo Pappalardi viene arrestato con l’accusa di sequestro di persona, duplice omicidio volontario aggravato dal vincolo di parentela ed occultamento di cadavere. L’uomo avrebbe ucciso i suoi due figli lo stesso giorno in cui ne aveva denunciato la scomparsa, nascondendo poi accuratamente i loro cadaveri. Pappalardi è inoltre indagato per aver indotto la convivente a rendere dichiarazioni false alla magistratura.
Secondo la ricostruzione fornita dal procuratore della Repubblica presso il tribunale di Bari, Emilio Marzano, Pappalardi non voleva più quei due figli. “Non li sopportava più. La nuova famiglia di Pappalardi, quella formata con Maria Ricupero, era già gravata da altri tre figli, Ciccio e Tore davano fastidio, disobbedivano, mentre Pappalardi voleva che rispettassero le regole”.
L’uomo continua a proclamarsi innocente e a nulla valgono le iniziative del suo difensore tendenti a denunciare non solo la debolezza del movente ma anche di tutto l’impianto investigativo. Resta in carcere, in isolamento.
Il 25 febbraio 2008, a quasi tre mesi dall’arresto del padre e quasi due anni dalla scomparsa dei due bambini, vengono ritrovati i cadaveri nel pozzo di uno stabile abbandonato nel pieno centro di Gravina. Sin dai riscontri e dalle autopsie si delinea con nettezza la dinamica accidentale della morte: i due cadaveri non hanno su di sé segni di violenza a parte le ferite procuratesi nella caduta. La cosa più agghiacciante è che i due avevano avuto una lunga e terribile agonia.
Com’è possibile che a nessuno era venuto in mente di andare a cercare nei pozzi e negli stabili abbandonati, almeno in quelli nelle immediate vicinanze dove i bambini erano stati visti l’ultima volta ? Come si faceva ad ignorare che esistevano posti così pericolosi dove due bambini vivaci potessero cadere ? Come si faceva ad ignorare che lo stesso nome Gravina deriva dalla presenza di crepacci erosi in terreni calcarei ?
Nonostante questi riscontri il povero Filippo Pappalardi rimane in carcere da dove esce solo il 4 aprile 2008. Nel mezzo la Procura resiste attaccandosi al baby-super-testimone: l’ipotesi adesso è che i due bambini sarebbero caduti nel pozzo per sfuggire alla punizione del padre che li cercava e che quindi si configurerebbe quantomeno l’omicidio colposo o l’eccesso di mezzi di correzione o la negligenza grave.
Intanto crolla anche la testimonianza del baby-super-testimone: dice che sin dall’inizio aveva dichiarato di non ricordare se il giorno era proprio quello della scomparsa, ma che loro (gli inquirenti) volevano “cose precise”, erano passati due mesi e noi abbiamo raccontato “quello che avevamo in mente”.
Ma la Procura resiste, nonostante le prove dell’innocenza di Pappalardi si accumulino ora dopo ora. Questi, ancora in carcere, denuncia, “l’avevo detto di cercare lì”, ma la Procura insiste: l’ipotesi dell’incidente è stata scartata sin da subito perché “’l'ipotesi di duplice e contemporanea disgrazia appariva scarsamente probabile dato che, salvo pensare a un crollo che avesse coinvolto entrambi o all’ipotesi di una disgrazia accorsa al secondo che magari tentava di soccorrere il primo (per esempio caduto in un vascone per l’irrigazione), resta il fatto insuperabile che Gravina di Puglia non e’ un comune di alta montagna, con crepacci, burroni e slavine pronti a seppellire per sempre i corpi dei malcapitati” (e allora perché si chiama Gravina ?).
Alla fine il GIP è costretto a prendere atto dell’innocenza del Pappalardi e riconoscere la tesi dell’incidente, nonostante la Procura continui ad insistere e per giustificare le evidenti discrepanze investigative, se la prende con i due poveri genitori, con la gente di Gravina. La dottoressa Romanazzi ne ha per tutti. Dice a pagina 12 della sua ordinanza: “si è profilato sin dalla primissima fase delle indagini, un groviglio di omissioni, reticenze, bugie, indugi, con inevitabili ripercussioni negative sull’attività investigativa”.
Questa vicenda non credo abbia bisogno di commenti: un padre accusato ingiustamente di aver ucciso i propri figli che intanto morivano orribilmente perché nessuno li cercava in quanto tutti si erano appassionati alla tesi dell’orco, una lunga pena detentiva e la pervicacia nel sostenere, anche di fronte all’evidenza dei fatti una tesi accusatoria che non stava in piedi sin dall’inizio soltanto se si fosse lavorato con scrupolo, evitando scorciatoie investigative e la ricerca di facili capri espiatori.
Ma ci dice anche un’altra cosa, che è più terribile, se vogliamo, di tutto il resto: Filippo Pappalardi è stato vittima di uno stereotipo quasi lobrosiano: era il colpevole perfetto, un semianalfabeta con una vita familiare confusa, severo con i figli cresciuti in un ambiente degradato in una piccola comunità del Sud, scorbutico e manesco, magari antipatico a tanti.
Quanti ne conosciamo di persone così ? Quante ne incontriamo ? E sono tutte potenziali assassini ?
Sulla base di questo è stata costruita l’inchiesta, non sulla effettiva rilevazione di reati e di riscontri indiziari.
Contro Pappalardi, non c’era nulla sin dall’inizio, solo questo teorema che, per colpevole faciloneria, per rispondere alla pressione mediatica, per soddisfare la “piazza”, è diventata un’accusa, un’inchiesta e una prova. E’ agghiacciante pensare che, se i corpi di Ciccio e Tore non fossero stati ritrovati Filippo Pappalardi sarebbe ancora in galera oppresso dal dolore per i figli perduti e dall’accusa drammatica di averli uccisi.
Per la cronaca i magistrati protagonisti di tutto ciò sono ancora lì, al loro posto, non essendone stato disposto neanche il trasferimento.

href=”http://www.gabrielepetrone.it/wp-content/uploads/2011/03/Salvatore-Pappalardi.jpg”>Salvatore Pappalardi
Il luogo dove sono stati ritrovati

LA MORTE DI GHEDDAFI…

gheddafi morto
La scena del dittatore ucciso, linciato, violato nella sua umanità nell’atto estremo della morte non è giustizia, è solo vendetta. Uccidere o processare il tiranno quando è ormai sconfitto e senza potere appare come un’operazione ipocrita e un tantino vigliacca, che serve a coprire silenzi e complicità precedenti, a mondare coscienze democratiche per troppo tempo distratte o con gli occhi chiusi di fronte all’assoluta banalità del male. Per questo gioire per la morte di Gheddafi mi sembra un atto barbaro così come barbari sono stati i comportamenti in vita di quell’uomo. Perché alla fine anche quel tiranno era soltanto un uomo, un altro terribile prodotto della crudeltà umana. E per la crudeltà umana vale solo la giustizia e, dopo la morte, solo la pietà.

Guerra umanitaria, guerra giusta o guerra necessaria ?

bombardamenti libia
La questione libica è sfociata nell’azione congiunte delle forze NATO su mandato dell’ONU per colpire le basi del regime di Gheddafi e proteggere le forze ribelli che stavano per soccombere in seguito alla controffensiva del Rais.
Questa azione riapre l’interrogativo classico sull’uso della forza in casi evidenti di violazione dei diritti umani in alcune aree del mondo. Che in Libia ci sia, e non da oggi, un palese caso di violazione dei diritti umani non c’è alcun dubbio. Molti hanno obiettato, giustamente, che Gheddafi massacrava i suoi concittadini anche prima e nessuno, nel civile e democratico mondo occidentale ha avuto nulla da eccepire, anzi. Gheddafi negli ultimi tempi, era diventato il “cocco” di gran parte della diplomazia occidentale, Italia per prima, e di tutti i governi, di destra o sinistra che fossero.
Senza contare che palesi violazioni dei diritti umani si sono verificate in tutto il mondo anche di recente e non per questo l’Occidente democratico ha sentito il dovere di intervenire militarmente.
La storia degli interventi militari nei punti caldi del mondo (Kosovo a parte) è, in verità, stata mossa da motivazioni assai più materiali e prosaiche della giusta volontà di ripristinare la democrazia dove veniva conculcata (controllo delle fonti energetiche, innanzitutto). Paesi poveri e marginali come il Ruanda o il Sudan non hanno suscitato l’intervento militare del democratico Occidente come l’Iraq o la stessa Libia.
Personalmente non amo la guerra, in nessuna sua forma. Non credo che ci siano guerre giuste (se non forse quelle che si “devono fare” per difendersi dalla sopraffazione) e sicuramente non esistono guerre umanitarie (una vera e propria contraddizione in termini). Esistono, tuttavia, guerre più o meno necessarie e l’intervento in Libia certamente lo è.
Lo è per sostenere il processo di democratizzazione del mondo arabo che si è avviato negli ultimi mesi e che non può essere abbandonato a se stesso o, peggio, all’influenza nefasta dell’integralismo islamico. Difendere la democrazia nel mondo arabo significa anche garantire la sicurezza di quello occidentale, problema immigrazione a parte.
Lo è per l’Italia, per i suoi interessi geopolitici, per la necessità che in tutto il Nordafrica si instaurino regimi democratici con i quali il nostro Paese abbia relazioni politiche ed economiche positive e stabili.
Gli interessi economici sono sempre presenti, non c’è dubbio, né può scandalizzarci. Il problema è come questi siano posti in una dimensione globale di coesistenza e cooperazione pacifica senza contare il vecchio principio wilsoniano dell’autodeterminazione dei popoli.
La guerra è uno strumento comunque sbagliato ? Non ho motivo di dissentire ma allo stato attuale non ne vedo altri, sinceramente. Ma è anche vero che il pacifismo assoluto non esiste nelle società umane, se si esclude lo straordinario insegnamento ghandiano o la visione religiosa cristiana.
Nel pacifismo politico tradizionale che abbiamo conosciuto in Occidente, non sono, infatti, meno presenti contraddizioni ed incongruenze. Mi riferisco essenzialmente al tradizionale pacifismo antiamericano e antioccidentale, che giustamente ha manifestato per la guerra in Iraq o in Kossovo e ha taciuto (o ha parlato assai flebilmente) sui missili nordcoreani o sui massacri sudanesi o ruandesi.
Dire no all’intervento ONU in Libia oggi significa tenersi Gheddafi: non mi piaceva prima e mi piace ancora meno ora. Nessun democratico con un minimo di buon senso può oggi sostenere un disimpegno da quell’area, per ragioni ideali e per ragioni pratiche. Di certo i democratici hanno il dovere di chiedere che l’uso della forza sia limitato nel tempo e nell’intensità e che abbia effetti concreti per la stabilizzazione di quel Paese e per dare la possibilità ai libici di scegliersi il proprio destino. Far nulla sarebbe peggio e doppiamente colpevole.
Caccia francesi in volo sulla Libia
Ribelli antigheddafi libici

Dopo la giornata di ieri un nuovo Risorgimento è possibile. Grazie Presidente Napolitano

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La giornata del 17 marzo si è chiusa con un grande successo popolare. Milioni di persone hanno affollato, in ogni parte d’Italia, le manifestazioni celebrative dei 150 anni del nostro Stato, segno che questa nostra nazione è viva e vuole restare unita, nonostante i suoi enormi problemi ed una classe dirigente che, eufemisticamente, possiamo definire, non all’altezza della situazione.
Anche la nostra città, la civile, democratica, aperta Cosenza, ha fatto la sua parte e devo dire che mi sento orgoglioso, oggi, di questa mia appartenenza plurale, di essere cosentino, calabrese, meridionale e italiano.
Si, perché l’unità in Italia significa anche questo: l’orgoglio di appartenere allo stesso tempo ad una terra, alla sua storia, alla sua cultura e, allo stesso tempo, ad una comunità ampia dove ognuno porta, con altrettanto orgoglio, una parte di sé.
Non era scontato che ciò avvenisse: questa ricorrenza e gli altri appuntamenti che seguiranno nei prossimi mesi, rischiavano di cadere nel disincanto, nella retorica, nell’ostilità aperta di tanti che, in questo nostro Paese spesso così fazioso, così campanilistico, così “rosicature”, non hanno mancato di far sentire la loro voce.
Merito di un grande Presidente, Giorgio Napolitano, l’aver fatto comprendere, però, che al di là di tutti i nostri problemi, l’Italia viene prima di tutto, e che solo se saremo capaci di restare uniti, di affrontarli insieme, riusciremo a vincere le sfide che abbiamo davanti, provando “orrore per la retorica passatista”.
Ciò non toglie che il nostro è un Paese che rimane troppo diviso, innanzitutto tra Nord e Sud, in una politica in cui gli scontri sono spesso pretestuosi ed ideologici e in cui il senso di responsabilità appare, purtroppo, assai raro.
Il Mezzogiorno, nonostante tutti i suoi problemi, le sue paure in un futuro difficile, ha partecipato con passione, ha rivolto ancora una volta allo Stato la sua domanda di essere parte, finalmente, di una grande nazione, a dispetto di tutte le “padanie” immaginabili e immaginarie.
Napolitano ci ha invitato tutti a guardare al futuro con l’orgoglio di appartenere ad un Paese che rimane grande, nonostante tutto, nonostante noi stessi.
Che a richiamarci a questo sia uno degli ultimi sopravvissuti di una grande stagione politica ed istituzionale della nostra storia repubblicana la dice lunga su una classe dirigente che continua a guardarsi l’ombelico e a litigare come i polli di Renzo.
Tuttavia, qualcosa, ieri, è accaduto: gli italiani di ogni regione e di ogni città hanno dimostrato una maturità straordinaria a dispetto di tutti, hanno fatto apparire le chiacchiere dispensate a piene mani da torme di politici, opinionisti, intellettuali “cassa continua” solo un piccolo, impercettibile brusio.
Forse la possibilità di fare di questo 2011 una occasione per un nuovo Risorgimento di questo Paese è davvero a portata di mano. Ed al Sud possiamo essere, ancora una volta, all’avanguardia e, soprattutto, restarci.

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