Il Piave mormorò: “Fuoco sulla Brigata “Catanzaro” ! di Mario Aloe

La brigata Catanzaro alla quota 208, 1916. In "Storia illustrata", n. 2, 1981.

La brigata Catanzaro alla quota 208, 1916. In “Storia illustrata”, n. 2, 1981.

di Mario Aloe

Il giallo dei campi della Calabria lo aveva negli occhi, dalla sua casa, adesso, avrebbe potuto guardare il mare celeste tingersi dei colori della sera. Sognava e nella mente scorrevano immagini che gli accarezzavano il cuore riempiendo il ricordo fino a sfinirlo, mentre punte di malinconia gli afferravano l’animo.
Presto la sera si sarebbe portata con se il grecale e il buio avrebbe suonato le note della notte, una serenata di grilli e rane gracidanti.  Anche qui era caldo, un caldo che le prime ombre avevano fugato come se un panno bagnato fosse passato sulla fronte lasciandosi dietro una scia di umido, che non era riuscita a rinfrancare il corpo .
Il sudore della giornata si era trasformato in un velo appiccicaticcio che avvolgeva la pelle.
Quindici luglio; erano nel paese dalla fine di Giugno di ritorno da mesi di prima linea e di combattimenti all’arma bianca. Un meritato riposo che il comandante dell’armata, il duca d’Aosta, aveva accordato ai due reggimenti della brigata. Se lo erano meritato il riposo.
Quindici luglio a Santa Maria La Longa, anche stanotte avrebbero dormito al chiuso, sulla paglia dopo aver mangiato un pasto caldo e non la sbobba che arrivava in trincea. La pasta e poi il pane e forse un pezzo di carne.
“Mike, ci vogliono rimandare al fronte, domani ci porteranno a morire. Mike l’ho saputo dal portaordini che è arrivato dal comando di divisione. Siamo carne perduta, uomini senza futuro.” Gli parlava Tonino, con quel suo accento siciliano, articolando le parole in preda ad un profondo stato di agitazione. “Lo sanno già tutti, altri hanno parlato con gli ufficiali, la notizia è sicura. Mi hanno mandato da te, pensano che tu possa parlare con il Poeta, che le tue parole possano ottenere il rinvio della data del ritorno sul Carso”.
Lo ascoltava e ancora non riusciva a rendersi conto dell’accaduto.  Possibile che ci fanno ritornare sul Carso?  Di nuovo al centro del massacro come se il sacrificio compiuto il 23 e 24 maggio non fosse bastato.
“Cerca l’americano mi hanno detto, cerca l’americano lui sa cosa dire. Il Poeta ha passeggiato con lui e quando è venuto al reggimento, ha chiesto di lui al comandante. Mike chiederà per noi,  lui riuscirà a convincere D’Annunzio”.
Cosa volevano da lui adesso? Il Carso aveva invaso la mente: una distesa di morti, appena fuori dalla trincea i suoi compagni, sfigurati dalla mitragliatrice, decapitati dal cannone, erano rimasti in centinaia nella terra di nessuno, cadaveri che si accumulavano a strati, morti che gridavano vendetta e che nessuno avrebbe mai vendicato.
Nel naso sentiva la puzza della morte, la puzza della carne che si decomponeva sotto il sole e loro nella trincea in attesa del prossimo assalto, del prossimo trillo del fischietto che li avrebbe portati incontro al destino.
“Sono incazzati. Guido vuole sparare agli ufficiali e poi prendere d’assalto la stazione e Vincenzo lo spalleggia, lui vuole ritornare a Villalonga. Fra poco succederà un casino.
Mike parla con il Poeta, lui , forse ci può ancora salvare.”
Il Vate?
D’Annunzio aveva esaltato il valore della guerra. In una delle passeggiate gli aveva raccontato del viaggio su Vienna in aeroplano. La GUERRA era la scintilla che accendeva il fuoco che avrebbe pulito lo spirito delle genti italiche, la forgia del futuro.
D’Annunzio non li avrebbe aiutati, sarebbe stato troppo chiedergli di pregare il Comando di lasciarli nella retrovia.
No, era inutile tentare, non lo avrebbe mai fatto.
Dal paese saliva un vociare sempre più forte: chi voleva impossessarsi di un treno, chi assaltare il comando di brigata e chi invece se ne fotteva rimanendo in fila davanti alla porta del bordello aspettando il suo turno per strappare pochi minuti di felicità.
“Tonì ritorna indietro e cerca di fare ragionare i tuoi amici, qua ci ammazzano tutti se facciamo cazzate. Ci sono già i carabinieri infiltrati tra noi. Il tenente mi ha fatto una spiata; cercano i sobillatori per mandarli davanti al tribunale. Tonino dillo a Gianandrea, il plotone d’esecuzione è pronto.
Non è così che riusciremo a ritornare alle nostre case, alle nostre famiglie.”
Ripercorse all’indietro il cammino verso la sua compagnia. Per strada il tumulto montava e si sentivano i primi spari coprire le grida della protesta.
Sparavano in alto, menomale. Passò a fianco degli alloggiamenti del 141° reggimento mentre dalle case uscivano gruppi di soldati armati. Il fumo degli incendi s’innalzava al cielo.
Santa Maria La Longa era diventata il teatro della ribellione, la notizia del ritorno in prima linea aveva rotto l’equilibrio inducendo questi suoi compagni delle campagne del sud a mettere da parte la pazienza. L’obbedienza secolare stava lasciando il posto alla tempesta, una furia cieca e senza speranza.
“Signor tenente– era giunto innanzi alla porta della casa dove alloggiava il suo reparto- tenga dentro tutti, li calmi. Li tenga dentro, li convinca a rimanere nella casa. Sicuramente l’ascolteranno come quando nel fuoco dello scontro li ha ricondotti indietro cercando di recuperare anche i feriti.  Di Lei si fidano”.
Il tenente Speranza, era come loro un uomo del sud, come loro parlava la lingua delle madri e voleva anche lui ritornare ad insegnare nella sua Cosenza. Al liceo Telesio lo aspettavano le declinazioni di latino e greco.
La notte avanzava e agli spari dei fucili adesso erano mischiati scariche di mitragliatrici. Era ritornato dal comando di brigata senza riuscire ad avvicinare l’attendente del colonnello, aveva tentato con il cappellano militare don Giacomo. Niente, non era riuscito in niente. Il prete lo aveva invitato a ritornare al suo reparto: la questione era ormai nelle mani dei carabinieri. Due compagnie stavano giungendo con ben quattro auto mitragliatrici e presto tutto sarebbe finito. Poi il plotone di esecuzione avrebbe completato l’opera.
“Non posso fare niente, siamo in guerra e il soldato deve obbedire, obbedire e avere fede in Dio e nella Patria. Qua tutti sparano, hanno persino provato ad assaltare la villa del Vate. Disordine e peccato chiamano repressione e punizione.-  Don Giacomo così mite era divenuto anche lui un vendicatore.  “Michele vai via e cerca di convincere i tuoi amici a deporre le armi e ritornare negli alloggi. Forse riuscirai a salvarne qualcuno”.
Mary era rimasta a Milano, al sicuro. L’aveva lasciata per raggiungere la brigata Catanzaro. Era stato un periodo bellissimo quello passato assieme in città.  Le conoscenze, i compagni socialisti, il deputato che li aveva accolti nella sua casa.
Mary che aveva rapinato una banca, pistola alla mano, per raggranellare i dollari per pagare il ritorno in Italia con lui,  Mary…  Anche lei era andata via. L’ultima lettera ricevuta dalla donna gli annunciava che si era messa col deputato: non lo amava più, aveva scelto il calore della sicurezza e la certezza del domani. Era bastato un anno di lontananza per cancellare la passione che li teneva uniti, un anno soltanto.
Loro erano diventati il nemico, loro era quello che l’Italia stava mitragliando e inseguendo per le vie del paese. Una caccia spietata, senza quartiere e perdono. Nessun perdono per questi suoi piccoli compagni che il lavoro dei campi e delle zolfatare aveva reso ancora più scuri e curvi.
Era riuscito raccogliere degli sbandati e li stava spingendo verso gli alloggiamenti del reggimento, li aveva raccolti come pecore smarrite e, adesso, nel silenzio della rassegnazione lo seguivano come fa il gregge con il cane pastore. Sentiva le urla dei pochi gruppi di rivoltosi rimasti e gli ordini secchi degli ufficiali dei carabinieri.
La notte stava colando di pena il cuore di questi piccoli meridionali prelevati dalle loro case e trasportati in terra straniera a combattere una guerra che non capivano. La loro patria era il podere, il paese, la chiesa in cui si erano sposati e non le pietraia del Carso o i monti di questa terra sconosciuta.
Una colata di pena ricopriva lentamente anche le case e gli alberi degli orti, nulla sembrava estraneo al dolore che si stava consumando.
Il silenzio avvolgeva tutto, un silenzio pesante ed angoscioso, che impediva agli occhi di chiudersi nel sonno, di trovare conforto nel nulla. Anche da loro passò un drappello di carabinieri.
“Tenente i suoi uomini sono al completo? Qualcuno dei suoi ha preso parte alla rivolta?” L’ufficiale, un capitano, mentre interrogava il nostro comandante scrutava tra le file dei soldati per cercare i segni della partecipazione all’insurrezione.
“Signor capitano la mia compagnia è rimasta chiusa nella casa, anzi altri soldati si sono aggiunti per sfuggire alla furia dei rivoltosi, per questo siamo così numerosi. Se vuole può ispezionare le camerate, controllare l’armeria. Stia certo, nessuno qui aveva voglia di lasciarsi andare all’insubordinazione.“
Il tenente aveva fatto mettere a posto i fucili e le munizioni, aveva costretto gli uomini a coricarsi, ad usare i giacigli. Tutto dava il senso della normalità mentre i cuori di questi suoi figli erano furiosi e traboccanti di odio.
I reggimenti erano schierati davanti al cimitero, incolonnati per la partenza mentre alcuni ufficiali stavano sorteggiando i fanti per la decimazione. Ventotto di noi furono tirati a sorte. Tonino, Gianandrea, Giovanni,  Nunziato ed altri ventiquattro furono portati sotto i cipressi del camposanto.
Gli uomini del plotone di esecuzione piangevano mentre i loro sguardi erano rivolti alla terra, perduti e spezzati nella rassegnazione. Anche D’Annunzio assisteva alla decimazione, avrebbe sicuramente scritto, ma il libro della vita ormai era stato cancellato: nessuno di loro sicuramente sarebbe ritornato alla madre, alla moglie, ai figli, alla loro piccola patria.

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