Attualità

Sistema elettorale delle province vera aberrazione

Provincia di Cosenza

Leggo molti commenti preoccupati e polemici sulla elezione di un esponente di centrodestra alla Provincia di Cosenza.

Al netto del tentativo, peraltro maldestro, di farne l’ennesima occasione di polemica interna al PD (come se non ce ne fossero abbastanza) e su quella che è spesso mitologia dell’inciucio, il sistema elettorale è congegnato in maniera tale che ad essere decisivi sono i governi delle città più grandi. Piaccia o non piaccia, il Centrosinistra in Provincia di Cosenza governa solo a Cassano Ionio (Castrovillari si è sciolta qualche mese fa). Ci si deve convincere, quindi, che era assai difficile spuntarla.
Allo stesso tempo è del tutto evidente che se a votare domenica scorsa fossero stati non i consiglieri comunali ma il popolo sovrano, Mario Occhiuto non solo non sarebbe stato eletto ma neppure si sarebbe candidato. E se si fosse candidato comunque, avrebbe perso le elezioni anche nella città in cui fa il sindaco, potete scommetterci 100 euro contro un fagiolo.

I dottor Stranamore che a Roma hanno messo a punto questo aberrante sistema di elezione del Presidente e del Consiglio Provinciale con la scusa del risparmio di qualche indennità e gettone di presenza cavalcando l’antipolitica cieca e trinariciuta che in questi anni è stata data in pasto a piene mani all’opinione pubblica, sono riusciti nel loro vero intento: privare i cittadini del diritto di eleggere i propri rappresentanti e quindi di esercitare il loro controllo democratico su un ente di gestione che, altra mistificazione mediatica, non è stato affatto abolito, anzi, continuerà a gestire settori importanti come la viabilità e l’edilizia scolastica.

Grazie a questa schifezza di riforma le province, semplicemente, come avveniva nell’800 notabilare, le gestiranno, senza vincolo di mandato e fuori da ogni controllo diretto o indiretto della cittadinanza, un gruppo di amministratori locali eletti nei loro comuni e su altre opzioni politiche e programmatiche.
Dell’aberrazione di questa legge come di altre che restringono gli spazi di democrazia in nome delle crociate anticasta, e che denuncio da tempo, io sono indignato. E mi piacerebbe fossero indignati i tanti o distratti o in malafede corifei del “nuovismo antipolitico” che ormai albergano anche nella nostra parte politica. Ma so che rimarrò deluso.

Scuola: l’ennesima “non-riforma”.

Scuola

Ho letto, come tanti, gli articoli con i quali si annunciava una legge-delega sulla scuola proposta dal sottosegretario Roberto Reggi.

Dico subito che, al netto degli annunci sulla obbligatorietà dell’aggiornamento dei docenti e su altro, chiamarla riforma mi sembra assai pretenzioso. Essa va piuttosto ricondotta alla sua vera essenza, cioè l’ennesimo tentativo di intervento sul personale per rivedere orari e stipendi.

Il tutto sugellato con la solita frase ad effetto: “la scuola cessi di essere un ammortizzatore sociale” (bum).

Non credo sia necessario ribadire che le 18 ore nelle scuole secondarie inferiori e superiori e le 24 ore nelle scuole primarie si riferiscono solo alle ore di lezione in classe.

Poi c’è tutto un lavoro al quale l’insegnante è obbligato, che in gran parte non rientra in quel monte orario (organi collegiali, programmazione, incontri scuola-famiglia, correzione compiti, ecc.).

Un lavoro delicato, sottoposto ad un controllo continuo, e non soltanto dei dirigenti scolastici, ma di un’utenza sempre più complessa ed esigente.

Se mi è consentita una battuta, discutere con i genitori sul rendimento e comportamento dei loro figli talvolta è un’esperienza che non si augura neppure ai peggior nemici !!!

Non si comprende, poi, che cosa significa proporre un aumento dell’orario a 36 ore settimanali atteso che, per come è organizzata la scuola oggi, le ore di lezione frontale possono aumentare al massimo a 24 (la media europea è attorno a 19, ma con stipendi assai più alti).

A meno che non si pensi ad una scuola a tempo iper-pieno che però significa un aumento di spesa per lo Stato e gli EELL in termini di personale ATA, servizi di pulizia, mense, trasporti, ecc..

Ci sono queste risorse ? Magari, ma mi pare che i segnali vadano in ben altra direzione (vedi il caso di Genova, dove l’esigenza di contenere la spesa ha imposto la settimana corta). E comunque resterebbe da capire che cosa dovrebbero fare i docenti nelle ore in cui non fanno lezione al netto degli altri impegni professionali.

Nessuno nega, ovviamente, la presenza nella nostra scuola  di insegnanti buoni e cattivi, quelli che a scuola praticamente ci vivono e altri che appartengono alla categoria dei “fantasmi”.

Queste due categorie percepiscono alla fine del mese lo stesso stipendio. Come, in generale, avviene in tutta la PA.

Poi ci sono gli incarichi sulle funzioni strumentali o di collaborazione con il dirigente scolastico o nei progetti PON che sono già, nei fatti, quegli incentivi economici al personale più impegnato e disponibile di cui tanto si parla.

Se oggi qualcuno dice, giustamente, introduciamo il principio secondo il quale chi lavora di più guadagna di più, non vedo come si possa essere in disaccordo. Come stabilire criteri e parametri oggettivi per non affidare tutto alla valutazione dei Dirigenti Scolatici ? Se ne discuta laicamente.

Tuttavia il vero tema che sta alla base della proposta Reggi, ripeto, non è questo.

La verità è che si vogliono produrre risparmi sul personale, azzerare le supplenze brevi e vedere come si fa cassa rispetto alle esigenze del bilancio dello Stato.

Nulla di nuovo, quindi, e nessuna riforma, solo destrutturazione di quello che c’è. E invece di una riforma vera la nostra scuola avrebbe davvero bisogno, una riforma che non solo ne ridurrebbe i costi, ma la renderebbe più efficace ed efficiente.

La nostra scuola oggi non ha identità: è la risultante di tante riformicchie senza respiro tenuta insieme con gli spilli e il senso di sacrificio di gran parte del suo corpo docente (che qualcuno lo riconoscesse, una volta tanto, non sarebbe male).

Non può sfuggire a nessuno, infatti, che dopo gli interventi sull’obbligo che, nei fatti, lo spingono fino ai diciotto anni in linea con i paesi più avanzati, si è aperto il problema di intervenire su alcuni segmenti del sistema, in particolare quello che va dal primo anno della secondaria inferiore al terzo anno della secondaria superiore.

Qui è il vero ventre molle, qui si concentrano tutte le criticità dal punto di vista pedagogico, didattico ed organizzativo.

Una vera riforma della scuola non può, quindi, limitarsi a discutere di orari e personale ma deve necessariamente porsi due domande fondamentali: primo, cosa pensiamo che la scuola debba fare, secondo come e con quali risorse debba farlo.

Hic Rhodus, hic salta. Non si sfugge.

Io penso che un intervento in quel segmento non possa non porsi come obiettivo quello squisitamente formativo, che si traduce in più ampi e diversificati contenuti disciplinari (si pensi, ad esempio, al ritorno del latino inteso come disciplina che struttura l’acquisizione corretta della lingua italiana) e in una robusta scelta a favore dell’innovazione tecnologica in linea con la cosiddetta rivoluzione digitale che stiamo vivendo.

In questo quadro può e deve essere pensato un diverso e più valorizzante uso del personale e quindi anche il superamento di evidenti discrasie, inefficienze e sprechi di risorse.

Un Governo del fare come si definisce quello di Matteo Renzi ha il dovere, anche su questo settore strategico, di introdurre una fase di netta discontinuità.

CARI FIGLI

Genitori e figli

Cari figli,
vi prego, vi scongiuro, almeno in una cosa non crescete. Da piccoli, quando vi facevate male, chiamavate sempre la mamma o il papà.
Fatelo anche adesso quando il male di vivere vi prende, quando il dolore vi sembra insopportabile. Cercateci, chiedete.
Lo so bene. Spesso non siamo migliori di voi. Abbiamo solo più vissuto e più sofferto. Qualche parola, quindi, possiamo spenderla in vostro aiuto o almeno tentare di farlo.
Perché nessun dolore è davvero insopportabile o insuperabile, a parte quello della vostra assenza.

Tornare al “Cuore”.

De Amicis e Cuore

Ritrovare una identità della scuola italiana.

C’è un romanzo per ragazzi caduto in disuso già ai tempi della mia generazione ma che rappresenta una delle pietre miliari della nostra storia della letteratura e non solo per l’infanzia: Cuore di De Amicis.

Mi spinse a leggerlo mia zia, che lo aveva studiato a scuola.

Lo incontrai di nuovo durante i miei studi universitari nelle critiche anche feroci che gli venivano mosse.

Negli anni ’70 ed ’80, infatti, Cuore veniva presentato come un libro intriso di retorica patriottica, di sentimentalismo, di ideologia positivistica-lombrosiana, di classismo. Si diceva che non fosse neppure un libro adatto ai ragazzi, per la violenza ed i fatti tragici descritti in molte delle sue pagine.

Eppure quel libro è stato uno dei pochi tentativi, in una letteratura troppo spesso piena di vera retorica moralistica come la nostra, di dare sostanza culturale e ragione alla società italiana.

Certamente nell’Italia del 1886 i valori proposti non potevano non essere quelli borghesi, laici e genericamente progressisti della classe dirigente che aveva portato a termine l’unificazione.

Il tentativo, cioè, di dare agi italiani una coscienza civile, una cultura comune in cui potessero riconoscersi e che non poteva non realizzarsi se non attraverso la scuola, individuata come l’agenzia educativa fondamentale per realizzare l’altro grande obiettivo del Risorgimento, quello di “fare gli italiani”.

Del resto il problema della nazionalizzazione delle masse era comune a tutta l’Europa che nell’800 si affrancava definitivamente dai residui dell’ancien regime e gli Stati cessavano di identificarsi in dinastie con i loro diritti feudali e sviluppavano nuove e più rappresentative istituzioni.

In Italia si doveva anche fare i conti con la presenza invadente (e nei primi anni post-unitari anche ostile) della Chiesa cattolica che per più di un millennio era stata l’unico elemento unificante in un Paese diviso in tante entità statali spesso in conflitto tra loro e, a partire dal XVI secolo, anche subalterne alle dinamiche diplomatiche, politiche e militari delle grandi potenze europee.

L’opera di Edmondo De Amicis, che in Italia ebbe uno straordinario successo secondo soltanto al Pinocchio di Collodi, ha rappresentato pertanto un esplicito tentativo pedagogico per una società che si sapeva disomogenea se non addirittura disgregata attorno ad alcuni valori di riferimento: il re, l’esercito, l’etica del sacrificio e del lavoro, l’aspirazione alla collaborazione ed alla solidarietà tra le diverse classi sociali in nome dell’amor di patria, ecc..

Valori datati, si dirà e sui quali sono passati due guerre mondiali e vent’anni di una dittatura che la Patria la farà morire con la liquidazione delle libertà democratiche, le persecuzioni politiche e razziali e, infine, con una guerra rovinosa in alleanza con uno dei progetti totalitari più criminali della storia. Una Patria che solo la Resistenza riuscirà a risollevare nella coscienza degli italiani.

Il problema però, è che, se si escludono le grandi tensioni democratiche che hanno per fortuna interessato la nostra scuola a partire dagli anni ’60 grazie anche all’opera straordinaria di Don Milani e della scuola di Barbiana, da un po’ di anni a questa parte non c’è stato più nessun tentativo paragonabile a quello rappresentato quasi 130 anni fa dal Cuore.

La nostra scuola ha subito riforme e controriforme che l’hanno lasciata sostanzialmente senza identità.

Una scuola che soffre, del resto, del generale disorientamento di una società che ha perso punti di riferimento, in cui caste e corporazioni si contrappongono le une alle altre nel tentativo di preservare privilegi che diventano di giorno in giorno sempre più piccoli e ristretti.

Questo Paese non avrà futuro se non riusciremo a darci un sistema di valori condivisi entro cui riconoscerci ed una scuola capace di formare i giovani nella nuova dimensione della cittadinanza europea.

Fare, dunque, i nuovi italiani cittadini di una Europa senza re e senza eserciti nella speranza che da qualche parte ci sia un De Amicis che abbia cominciato a scrivere il “Cuore” degli anni 2000.

L’insostenibile voglia di test

Test

Da almeno un ventennio in Italia abbiamo importato la moda dei test o questionari. Si fa un questionario per tutto: per accedere ad un concorso, per iscriversi all’università, per valutare le capacità di leggere, scrivere e far di conto, perfino per fare la spesa al supermercato.

La moda delle crocette e delle risposte aperte o chiuse, di chiara ispirazione anglosassone, pervade ormai il nostro sistema formativo.

Al fondo di tutto ciò ci sta la convinzione che un test sia un sistema oggettivo di valutazione. La correzione affidata poi ad un computer propaga l’idea di una valutazione che sia quanto di più corretta possibile, in grado davvero di selezionare i migliori e, soprattutto, al riparo dal rischio di raccomandazioni.

I dati ci consegnano, purtroppo una realtà ben diversa.

Innanzitutto la qualità e la preparazione dei selezionati che, pur diminuendo in quantità, nonostante tutto, continua ad abbassarsi, in tutti i settori, come dimostrano le indagini comparate a livello internazionale (soprattutto quelle OCSE). Vale a dire che, ad esempio, per quanto riguarda i laureati ne abbiamo sempre meno e sempre meno preparati.

Stendiamo poi un velo pietoso sulla presunta oggettività affidata alle macchine: la stampa è piena di continue denunce su brogli, magari solo tecnologicamente più sofisticati.

La verità, come può testimoniare qualsiasi insegnante con un minimo di esperienza tra i banchi, è che il test può essere solo uno strumento tra tanti per una valutazione quanto più oggettiva delle capacità e delle competenze di uno studente.

Personalmente mi sono trovato spesso di fronte a ragazzi abilissimi nel rispondere a questionari ed a risolvere esercizi di grammatica e, nello stesso tempo, assolutamente mediocri nel saper scrivere anche brevi brani di senso compiuto o a comprendere semplici articoli di giornale. Al contrario molti ragazzi che nei questionari totalizzavano punteggi insufficienti erano in grado di scrivere in forma corretta e scorrevole, oltre che di leggere e comprendere al fondo il senso di testi anche complessi.

Questo perché valutare le capacità, le conoscenze e le abilità è fatto complesso perché complesso è l’essere umano. Perché il sapere non si acquisisce con le nozioni ma con la capacità di orientarsi criticamente in un mondo in continuo e vertiginoso cambiamento.

Una mondo che non si può racchiudere, per quanto sforzi si possano fare, né in una domanda a risposta multipla né nella memoria di un computer.

Adios, Gabo…

Gabriel_Garcia_Marquez

Ci sono autori che segnano la storia della letteratura.

Gabriel Garcia Marquez è stato certamente uno di questi. Il suo nome resterà tra i grandi di tutti i tempi.

Perché Marquez è uno di quegli autori che hanno saputo rappresentare la “magia” tragica e al tempo stesso ironica della storia umana.

Chiunque abbia letto Marquez ha avuto la possibilità di trovare nelle sue opere un pezzo del suo animo, della sua concezione del mondo. E’ questa l’essenza del suo capolavoro Cent’anni di solitudine. E come dimenticare la riflessione poetica sulla solitudine devastante del potere che possiamo leggere ne L’autunno del patriarca ? O il tema della vecchiaia e dell’amore che resiste anche all’usura del tempo magistralmente rappresentato in L’amore ai tempi del colera ?

La letteratura di Gabriel Garcia Marquez resta dunque un pezzo fondamentale della cultura contemporanea, della nostra cultura, della mia cultura.

Ecco perché oggi mi piace salutarlo con le ultime parole del suo romanzo Il generale nel suo labirinto dedicato a Simon Bolivar, il Libertador del continente Sudamericano.

Il generale nel suo labirinto

“Allora incrociò le braccia sul petto e cominciò a udire le voci raggianti degli schiavi che cantavano il salve delle sei nei frantoi, e vide dalla finestra il diamante di Venere nel cielo che se ne andava per sempre, le nevi eterne, il rampicante le cui nuove campanule gialle non avrebbe visto fiorire il sabato  successivo nella casa sbarrata dal lutto, gli ultimi fulgori della vita che mai più, per i secoli dei secoli, si sarebbe ripetuta”.

Sulla legge elettorale evitiamo furbizie riproponendo le liste bloccate

Urna elettorale

La sentenza della Corte Costituzionale è chiara. Sono incostituzionali sia il premio di maggioranza che distorce il principio democratico per il quale è possibile trasformare “una formazione che ha conseguito una percentuale pur molto ridotta di suffragi in quella che raggiunge la maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea” , sia le liste bloccate che impediscono all’elettore di scegliere il proprio rappresentante.

“Non c’è”, infatti, (cito ancora testualmente la sentenza) “un modello di sistema elettorale imposto dalla Carta costituzionale, in quanto quest’ultima lascia alla discrezionalità del legislatore la scelta del sistema che ritenga più idoneo ed efficace in considerazione del contesto storico. Il sistema elettorale, tuttavia, pur costituendo espressione dell’ampia discrezionalità legislativa, non è esente da controllo, essendo sempre censurabile in sede di giudizio di costituzionalità quando risulti manifestamente irragionevole”.

Stando così le cose la Corte non poteva che limitarsi a cassare le parti della legge palesemente incostituzionali perché altrimenti si sarebbe appropriata di prerogative legislative che non le competono. Le leggi le fa il parlamento, che ne ha, come è stato ribadito ancora una volta dalla stessa Corte, la piena legittimità e, anzi, il dovere.

In questo contesto va anche lettala questione relativa alle liste bloccate perché con il “porcellum” veniva a verificarsi “la circostanza che alla totalità dei parlamentari eletti, senza alcuna eccezione” mancasse “il sostegno della indicazione personale dei cittadini che ferisce la logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione. Simili condizioni di voto, che impongono al cittadino, scegliendo una lista, di scegliere in blocco anche tutti i numerosi candidati in essa elencati, che non ha avuto modo di conoscere e valutare e che sono automaticamente destinati, in ragione della posizione in lista, a diventare deputati o senatori, rendono la disciplina in esame non comparabile né con altri sistemi caratterizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi, né con altri caratterizzati da circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto (al pari di quanto accade nel caso dei collegi uninominali)”.

In questa parte molti commentatori hanno voluto leggere un via libera a modelli elettorali di altri paesi, quello spagnolo e tedesco per intenderci, dove le liste bloccate esistono pur essendo molto corte (Spagna) e riferite a circoscrizioni assai piccole o limitate ad una parte degli eleggibili (Germania) essendo gli altri deputati eletti in collegi uninominali. In entrambi i casi i nomi dei candidati sono riportati sulla scheda.

Insomma, la tentazione che si possano riproporre, in forme più “potabili” le liste bloccate, cioè liste più corte ma pur sempre di nominati per essere espliciti, è assai forte. Ed è qui, che a mio parere i cittadini devono vigilare.

Perché se è vero che in Spagna e in Germania esistono liste bloccate è anche vero che in quei Paesi è cresciuta in questi anni l’insofferenza contro quelle leggi elettorali che non consentono il voto diretto al parlamentare da parte dell’elettore.

Non si comprende perché, dunque, dovremmo imitare sistemi elettorali che in quegli stessi paesi sono sottoposti a forti critiche e richieste di revisione. Senza contare che si trascura di dire che già nel sistema spagnolo, per quanto riguarda la parte elettiva del Senato (l’altra parte è delegata delle autonomie locali)  sono previste le preferenze. I senatori spagnoli, infatti, sono eletti con il meccanismo del voto limitato, vale a dire che gli elettori, se gli eleggibili in una circoscrizione sono, ad esempio, 4 ne possono votare fino ad un massimo di  tre.

Riproporre nella nuova legge elettorale le liste bloccate sarebbe dunque un errore che non farebbe che alimentare la contestazione antipolitica, perché farebbe rientrare dalla finestra ciò che si è cercato di cacciare via dalla porta, vale a dire un parlamento di “nominati”.

Ecco perché la nuova legge elettorale, anche (e io dico soprattutto) su questo punto non può permettersi furbizie che non farebbero che alimentare l’insofferenza dei cittadini.

Le uniche due forme nelle quali l’elettore può scegliere direttamente il proprio rappresentante sono la preferenza e il collegio uninominale. Personalmente preferisco la prima, soprattutto la doppia preferenza di genere che consente alle donne di poter concorrere alla pari degli uomini alla possibilità di essere elette. Ma le forme per garantire questo diritto di scelta degli elettori possono essere diverse, anche guardando all’Europa con occhi meno strabici di quanto spesso si fa (la non citazione del metodo di elezione del Senato spagnolo è, a mio parere, emblematica).

Le forze politiche in parlamento ne scelgano uno, ma decidano, perché fare una buona legge elettorale rappresenta un passo fondamentale anche se non sufficiente per dare finalmente un nuovo assetto alla democrazia italiana.

Bastoniamo don Abbondio !!!

don_Abbondio-2

Ne I promessi sposi un personaggio centrale è certamente il curato don Abbondio, quello che minacciato dai “bravi” di Don Rodrigo, si rifiuta di celebrare le nozze tra Renzo e Lucia e innesca il complesso processo narrativo del romanzo manzoniano.

Don Abbondio è un personaggio comico nel suo crudo realismo: un povero prete di campagna messo di fronte ad avvenimenti più grandi di lui e che reagisce nell’unico modo che conosce, fuggendo dalle proprie responsabilità.

Quelle responsabilità alle quali lo richiama il cardinale Federigo Borromeo e che però trovano il nostro assolutamente incapace di comprendere. Le parole appassionate del cardinale, infatti, non lo smuovono, prova anzi disappunto nel riconoscere nelle argomentazioni dell’alto prelato le stesse che, all’inizio della storia, aveva usato con lui l’umile Perpetua, ha voglia di scappare e pensa tra sé “che sant’uomo, ma che tormento” fino a sbottare nella famosa frase: “Il coraggio chi non ce l’ha non se lo può dare”.

donabbondio-1-323x294

E’ questa frase che lo rende simpatico, quasi che Manzoni, da grande artista ci dica: si dovremmo prenderlo a bastonate a questa bestia, ma in fondo egli non può essere diverso da quello che è, un povero uomo piccolo piccolo, un ignavo di cui al massimo sorridere se non con comprensione almeno con indulgenza

E in verità il prete manzoniano le bastonate se le merita tutte: perché Don Abbondio è il classico debole con i forti e forte con i deboli. Si comprende questo aspetto del suo carattere quando la famosa notte in cui doveva celebrarsi il matrimonio a sorpresa, lo stratagemma con il quale lo strappano dal letto è la restituzione di un prestito, segno che il nostro era uso a prestar denaro ad interesse, un’attività tutt’altro che consona al suo ruolo di “pastore di anime”.

Don Abbondio nel momento cruciale sceglie la strada che gli sembra più semplice e non quella, certamente più difficile che pure Perpetua in tutta la sua umiltà, aveva saputo indicargli. Come tanti, come troppi.

Troppe volte chi dovrebbe prendersi le responsabilità,  piccole o grandi che siano, del proprio ruolo, fugge o ne scarica il peso sugli altri senza curarsi che i danni del suo comportamento finiranno per pagarli tutti.

Senza contare che spesso sono proprio questi “don Abbondio” a indossare la veste dei moralisti o, peggio, degli implacabili inquisitori dei mali della “serva Italia, di dolore ostello”, senza riflettere sul fatto che di don Abbondio ce ne stanno in tutte le categorie: imprenditori, professionisti, giornalisti, dirigenti, funzionari, semplici impiegati, insegnanti, politici, operai, ecc., nella gente che semplicemente non fa il proprio dovere.

Perché fare il proprio dovere non significa “fare gli eroi” (nemmeno a Don Abbondio si chiedeva questo) ma semplicemente assumersi le proprie responsabilità.

Ecco perché i tanti don Abbondio dei nostri tempi, quelli che spesso sollevano forche e forconi sempre contro gli altri, dovrebbero interrogarsi su quante bastonate loro stessi hanno già meritato di beccarsi sul groppone.

Legge elettorale: non tirare la giacca alla Corte Costituzionale con giochini da tre carte.

Corte Costituzionale

E’ assai probabile che domani la Corte Costituzionale rinvii di qualche settimana la sua decisione sul famigerato porcellum. Nel frattempo, sul web e qua e là sui giornali si susseguono congetture e previsioni sulle possibili decisioni, alcune assai fantasiose e tendenti ad affermare la voglia vera di non cambiare nulla.

Per quanto mi riguarda ritengo che la Corte farà soltanto il suo mestiere e laddove entrerà nel merito non credo che assumerà posizioni pilatesche. E’ proprio per questi motivi che trovo assai discutibili quelle congetture di cui sopra.

Tra queste la più “interessata” è quella che sostiene che la Corte dichiarerà incostituzionale il solo premio di maggioranza e non le liste bloccate.

Questa posizione, proveniente dal fronte sotterraneo a tutte le forze politiche ostile nei fatti, pur tra mille roboanti dichiarazioni di principio, alla riforma del “porcellum”, trascura di dire che gli art. 56 e 58 della Costituzione, stabiliscono chiaramente che deputati e senatori sono eletti a “suffragio universale e diretto”. Significa che è l’elettore che elegge direttamente il proprio rappresentante, se l’italiano non è un’opinione.

Mi sapete dire, invece, in quale modo oggi gli elettori possono esercitare questo diritto costituzionale ? Con il “porcellum”, infatti, l’elettore si limita a ratificare una decisione presa a priori dal compilatore della lista. Senza contare che, con il meccanismo delle diverse candidature in più circoscrizioni e le opzioni successive degli eletti, l’elettore non decide neppure che quella lista, con quella composizione, sarà effettivamente quella eletta nella sua circoscrizione.

D’altro canto come si concilia la lista bloccata con l’articolo 67 della Costituzione secondo il quale “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato” ?

Né vale il paragone con altri paesi europei dove sono presenti liste bloccate, perché dovunque il nome dei candidati compare sulla scheda e sono riferiti o a collegi uninominali o plurinominali con liste assai brevi in circoscrizioni molto ristrette.

Insomma, la si smetta di prendere in giro il popolo e si lasci lavorare la Corte che di certo ne sa più di tanti costituzionalisti da bar dello sport che popolano il nostro dibattito pubblico.

GRILLO SULLA IMMIGRAZIONE LA PENSA COME ALFANO E MARONI

Grillo fascista

Insomma, dopo che al Senato viene approvata una sacrosanta proposta del M5S che prevede l’abolizione del reato di clandestinità, Grillo e Casaleggio sconfessano i propri senatori e impongono la marcia indietro. Il reato di clandestinità non è in programma, dicono. Raccontatelo ai morti in fondo al mare di Lampedusa. Ma soprattutto raccontatelo ai tanti “radicali di sinistra” che vi hanno dato il voto alle ultime elezioni. E questi ultimi ci spieghino, come fossimo bambini di sei anni, come mai per spostare “a sinistra” il PD hanno votato un partito i cui leader, Grillo e Casaleggio, la pensano esattamente come Alfano, Larussa, Alemanno, Maroni, Bossi, ecc..

Commenti
    Archivio