risorgimento

La fine di un sogno. Storia di un Italiano di Mario Aloe.

La copertina del libro di Mario Aloe: La Fine di un Sogno. Storia di un Italiano

La copertina del libro di Mario Aloe: La Fine di un Sogno. Storia di un Italiano

Ho terminato di leggere in questi giorni un breve ma intenso romanzo di un autore di Amantea, Mario Aloe, pubblicato con i tipi delle edizioni Mannarino.

Il romanzo, intitolato La fine di un sogno. Storia di un Italiano, narra la vita di un giovane amanteano vissuto nel passaggio cruciale tra il XVIII ed il XIX secolo, figlio di una famiglia di piccola nobiltà provinciale che, attraverso la intraprendenza commerciale, è riuscita a consolidare una buona posizione economica in una realtà dove spesso i titoli nobiliari erano sinonimi di vita parassitaria sulle scarse rendite fondiarie.

Luigi Baffa, è questo il nome del protagonista, riesce così a studiare a Cosenza al Regio Collegio che Carlo III aveva fondato dopo l’espulsione dei gesuiti dal regno e poi a completare i propri studi a Napoli all’accademia militare della Nunziatella.

Il romanzo mostra come il giovane calabrese incontri, nel clima di rinnovamento che l’arrivo di Carlo III di Borbone era riuscito a instaurare nel regno, l’intellettualità illuminista che, com’è noto, proprio nella capitale del Sud ebbe uno dei suoi centri italiani più fiorenti.

Mario Aloe riesce bene a descriverci il clima politico e culturale di quegli anni, fervido di speranze che il regno di Napoli potesse diventare quella monarchia nazionale in grado di giocare un ruolo di primo piano negli equilibri politici e diplomatici non solo della Penisola ma dell’intera Europa.

Nello stesso tempo ci dà il quadro esatto e accurato storicamente di come fosse la Calabria tra Settecento ed Ottocento: una regione con isole culturali di primordine come Cosenza ma priva di strade praticabili, costellata da paludi malsane e coperta di foreste infestate da briganti che rendevano incerte e sempre pericolose le comunicazioni interne, schiacciata sotto lo strapotere di baroni che sfruttavano una massa di contadini costretti ai livelli minimi di sopravvivenza di una agricoltura poverissima e primitiva.

La questione della terra, dei diritti contadini sulle terre demaniali usurpate da questa classe di nuovi feudatari, la mancanza di legge ed autorità rispettate e la prevalenza dell’arbitrio sul diritto, rappresenta lo sfondo del romanzo il cui intreccio tra vicende individuali (con la presenza di tanti personaggi realmente esistiti, come il fondatore della massoneria in Calabria, l’abate Jerocades, il Salfi, il Toscano, la duchessa di Sanfelice, la Pimentel Fonseca, l’ammiraglio Caracciolo, ecc.) e fatti storici (il terribile terremoto del 1783 e le sue conseguenze, le guerre contro la Francia rivoluzionaria e le armate portate in Italia dal giovanissimo generale Bonaparte, l’effimera e drammatica esperienza della repubblica partenopea del 1799 spazzata via dalle masse sanfediste del Cardinale Ruffo, l’eroico episodio del forte della Vigliena in cui i calabresi della Legione Calabra comandati dal cosentino Antonio Toscano preferirono farsi saltare in aria pur di non cedere alla restaurazione assolutista borbonica, ecc.) e ne sono, a mio parere, l’elemento più interessante e significativo.

La Bandiera della Repubblica Partenopea del 1799

La Bandiera della Repubblica Partenopea del 1799

Si aggiungano le straordinarie descrizioni dei luoghi e dei costumi e ne viene fuori un romanzo che vale la pena di leggere e far conoscere.

Un romanzo storico che, e ciò va a merito dell’autore, ci riporta un quadro realistico e verosimile di come, agli albori del nostro Risorgimento nazionale, una intera generazione imparò, anche a costo della propria vita, ad essere italiana ed europea.

Una generazione che i Borbone di Napoli prima incoraggiarono sulla strada del rinnovamento e della modernizzazione e poi, come maldestri apprendisti stregoni, non riuscirono più a controllare mandandola al patibolo senza alcuna remora e pietà.

Prevalsero in quella casa regnante, come in tante altre in tutta Europa, i propri ristretti interessi dinastici.

Per quella generazione un’occasione perduta, la fine di un sogno per il quale bisognerà attendere ancora altri sessant’anni e a vantaggio di un’altra dinastia, quella subalpina dei Savoia.

Per i Borbone, come per altre dinastie italiane ed europee, la perdita dei regni e del potere e l’oblio della storia.

Una ricostruzione quella di Mario Aloe, lasciatemelo dire, che fa giustizia di tante altre, parziali ed esplicitamente revisioniste, che ci descrivono un Regno delle Due Sicilie come un esempio di buona amministrazione per popolazioni ricche e felici almeno fino all’arrivo dei cattivi “piemontesi”.

La storia, nella sua drammaticità, ci parla invece di un Sud e di una Calabria pronti a recepire le grandi idee di cambiamento del mondo ma anche di classi dirigenti miopi e grette, incapaci di guardare al di là dei propri ristrettissimi interessi di classe, di popolazioni contadine disperate nella loro richiesta di terra e migliori condizioni di vita e di lavoro e costrette spesso alla tragica ed individuale rivolta della vita alla macchia come briganti e anche in questa condizione, spesso ingannate nella difesa di interessi non propri.

Un bel libro, dunque, di cui mi sento di consigliare la lettura.

Il Monumento ai martiri del 1799 a Napoli

Il Monumento ai martiri del 1799 a Napoli

 

Sbagliato dedicare una via a Ferdinando II di Borbone.

Ferdinando II di Borbone

Pubblicato su “Calabria Ora” del 14 Luglio 2013

Leggo della intenzione del Comune di Montalto Uffugo di voler dedicare, su proposta della delegazione locale dell’Associazione Nazionale Neoborbonica, una strada a Ferdinando II di Borbone.

La proposta mi sembra discutibile, non tanto per la volontà espressa di ricordare nella toponomastica di un Comune una dinastia che ha avuto certamente grande importanza nella storia italiana e segnatamente del Mezzogiorno, ma per la scelta proprio di uno dei suoi esponenti più discussi e sul quale il giudizio degli storici è, abbastanza largamente, negativo.

Ferdinando II, checché ne dica certa vulgata storiografica piuttosto recente, alimentata da un minoritario sentimento che definirei da “leghismo rovesciato” che tende a negare il valore storico del Risorgimento italiano, non fu certamente un buon governante per il popolo meridionale, anzi.

Se nella prima fase del suo trentennale regno sembrò voler introdurre processi di modernizzazione e di dinamismo, il suo viscerale antigiacobinismo, la tendenza personale alla sospettosità e all’egocentrismo (unita anche ad una religiosità a tratti irrazionale e supersitiziosa) lo portò a compiere scelte che chiusero il regno alle innovazioni politiche, economiche e sociali che invece stavano cambiando dovunque la società italiana ed europea.

Rimase prigioniero di una visione reazionaria, asfittica, figlia degli equilibri assolutamente precari scaturiti dal Congresso di Vienna dopo la fine dell’età napoleonica che si era illuso di riportare indietro per decreto le lancette della storia.

Affermare che il Regno delle Due Sicilie fosse una sorta di paese del Bengodi, un’epoca felice dal punto di vista economico e sociale, significa dire una straordinaria bugia. Il popolo meridionale sotto Ferdinando II viveva, nella sua stragrande maggioranza, di un’agricoltura appena superiore alla sussistenza.

Le promesse di risoluzione del secolare problema della terra fatte proprio dai predecessori di Ferdinando, non solo non avevano avuto alcuna risposta ma, nella maggioranza dei casi, avevano semplicemente legittimato decenni e decenni di usurpazioni di terre demaniali destinate agli usi civici delle diverse comunità calabresi, da parte di una classe di nuovi “baroni” che erano stati gli unici beneficiari delle leggi di eversione dalla feudalità varate sotto l’occupazione francese.

E’ pur vero che dopo l’Unità molti di questi problemi rimasero aperti (la questione della terra sarà risolta solo dopo la seconda guerra mondiale) ma le loro radici erano profondamente intrecciate alla storia di un Mezzogiorno che, a prescindere dai suoi governanti, viveva una condizione di profonda marginalità economica e sociale.

Anche certa mitologia su un presunto sviluppo industriale del Sud “bloccato” dai cattivi piemontesi va fortemente ridimensionata: se è vero che alcuni centri industriali come quello vibonese furono chiusi dopo l’Unità perché incapaci di reggere la concorrenza con gli stabilimenti di altre parti del paese, la loro importanza non va esagerata perché si trattava di impianti molto modesti in un contesto economico in cui lo Stato, per scelta politica, continuava a basare quasi esclusivamente la sua economia sull’agricoltura e l’esportazione di alcuni prodotti di eccellenza (olio, vino, agrumi) e all’importazione di prodotti industriali finiti soprattutto dalla Gran Bretagna.

Il Regno delle Due Sicilie aveva un livello di tassazione piuttosto basso che gravava comunque in grande misura sulla parte più povera della popolazione attraverso balzelli piuttosto odiosi, come quello sul sale, elemento fondamentale per la conservazione alimentare e quindi particolarmente odiato soprattutto dalla popolazione contadina. Nello stesso tempo aveva una spesa pubblica praticamente inesistente.

Gli unici investimenti andavano alla marina mercantile e militare (e all’esercito in generale, che si basava essenzialmente su alcuni reparti mercenari), rinunciando alla costruzione di una rete ferroviaria efficiente e all’estensione della viabilità ordinaria.

La Calabria praticamente non aveva strade (se si esclude la consolare Campotenese-Villa San Giovanni ammodernata dai francesi e tracciata sulla millenaria Via Popilia) così che per portare merci da Paola a Rossano si preferiva mandarle per nave attraverso lo Stretto.

Negli stessi anni in cui in tutta Europa e anche in alcuni stati italiani si varavano leggi sulla istruzione elementare obbligatoria nel Regno delle Due Sicilie i livelli di analfabetismo toccavano e superavano il 90 % della popolazione.

Per mantenere il consenso soprattutto nei ceti popolari della città di Napoli si procedeva, di tanto in tanto, alla distribuzione di pane e generi alimentari o a qualche festa in cui il re amava mostrarsi come paterno e generoso benefattore.

Dall’altro lato ogni forma di dissenso, soprattutto nei ceti intellettuali (che Ferdinando definiva “pennaiuoli”), veniva punito con la galera, i lavori forzati, la forca e le fucilazioni.

Che dire poi di un re che, dopo essere stato costretto a concedere la Costituzione (gennaio 1848), non esitò a far bombardare Napoli, la sua capitale, e a sciogliere il Parlamento eletto con la forza delle armi (maggio 1848) ?

Un re superstizioso e antimoderno, incapace di accogliere critiche e osservazioni e quindi inevitabilmente circondato da adulatori e inetti, comunque incapaci di dirgli la verità.

Fu questa sua sospettosità, unita ad una forte dosa di superstiziosa sfiducia nei medici, che lo portò alla morte per una banale infezione inguinale.

Non è un caso che il sistema che si era fino ad allora retto sulla sua comunque forte personalità, su una autocrazia incapace di riformarsi e di aprirsi, crollerà in pochi mesi per via di una iniziativa militare che, sia pure improvvisata, era dotata di un capo militarmente e politicamente determinato come Garibaldi.

Dedicare quindi una strada a Re Bomba (l’”affettuoso” nomignolo con il quale Ferdinando fu apostrofato dopo i fatti del 1848) mi sembra, quindi, una idea sbagliata.

Se si vuole invece onorare la memoria di una dinastia un altro dovrebbe essere il re a cui dedicare una strada: Carlo III che, nella prima metà del ‘700 seppe fare del Regno di Napoli uno stato importante nell’Europa del tempo, il primo a modernizzarsi e a dotarsi di una burocrazia basata sul merito e non più sui vecchi privilegi aristocratici.

Uno stato avanzato sul piano politico e culturale, capace di legarsi, sul piano internazionale, alle spinte innovative provenienti da altre nazioni europee. Una politica che i successori di Carlo III, l’intelligente ma ignorante e indolente Ferdinando IV (poi Ferdinando I delle Due Sicilie), l’incolore Francesco I e il nostro Ferdinando II, non seppero o non vollero portare avanti.

Carlo III re di Napoli e di Spagna

Preferirono non comprendere il vento della storia sviluppatosi dopo la rivoluzione francese che andava nella direzione opposta a quella da loro scelta.

Invece di puntare a diventare una moderna monarchia liberale e costituzionale si rinchiusero in un antigiacobinismo inconcludente e reazionario insieme a paesi come la Russia degli zar e dei servi della gleba.

La storia non si fa con i se, ma probabilmente, per il peso territoriale e demografico che il Regno delle Due Sicilie aveva nell’Italia ottocentesca, l’Unità avrebbero potuta farla i Borbone e non i Savoia che fino al 1848 non erano stati meno reazionari di loro, anzi. E forse anche per colpa della loro miopia politica, il Sud d’Italia perse un’altra delle sue occasioni storiche.

PDF DELL’ARTICOLO

Articolo su Ferdinando II pdf Calabria Ora del 14 luglio 2013

29 AGOSTO 1862: IL RISORGIMENTO FINI’ IN CALABRIA. 150 anni fa, Garibaldi veniva ferito dai bersaglieri in Aspromonte

Garibaldi ferito in Aspromonte

Pubblicato su “Calabria Ora” del 29 agosto 2012

Per quelli della mia generazione, quando il il Risorgimento si studiava alle scuole elementari, era molto familiare una canzone sul ritmo della marcia dei bersaglieri che diceva “Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba…”.
Quella canzone ricorda un episodio  poco frequentato dalla agiografia risorgimentale e che accadde proprio in Calabria il 29 agosto del 1862 sull’Aspromonte. Significativo il fatto che l’unica ferita piuttosto grave in decenni di scontri in ogni parte del globo, il famoso Eroe dei Due Mondi la prese per un colpo sparatogli dai bersaglieri di quella nuova Italia che proprio lui aveva tanto contribuito a costruire in decenni di battaglie e con la straordinaria impresa dei Mille di appena due anni prima.
Ma come si giunse a questo scontro a fuoco che simbolicamente suggella la fine del Risorgimento e l’inizio della travagliata storia del nuovo Stato italiano, episodio ben ricostruito nel suo splendido film “Noi credevamo” dal regista Martone ?
Il Regno d’Italia era stato proclamato il 17 marzo del 1861 dal Parlamento di Torino dopo più di quarant’anni di moti, rivolte e guerre. Decisivo era stato il compromesso tra democratici e moderati, con l’accettazione da parte dei primi della formula monarchica con a capo Vittorio Emanuele II di Savoia ”purché l’Italia, finalmente, si facesse davvero”.
Garibaldi era stato il principale fautore di questo accordo in polemica con l’intransigenza di Mazzini, consapevole che solo la forza militare del piccolo stato piemontese, l’unico dotato di un vero esercito e ormai schierato sul terreno liberale (Vittorio Emanuele non aveva revocato, nonostante le pressioni austriache dopo la sconfitta del 1848, lo Statuto concesso dal padre Carlo Alberto), avrebbe potuto realizzare il sogno di una Italia libera e unita dalle Alpi alla Trinacria, come si diceva allora.
E nel biennio 1859-1860 il sogno per i quali tanti erano morti e avevano patito anni di prigione e di esilio comminati dagli autoritari stati preunitari (per i quali certo neonostalgismo da operetta appare davvero ridicolo) la combinazione della vittoriosa guerra contro l’Austria con l’appoggio delle armate francesi di Napoleone III e della straordinaria impresa garibaldina contro il Regno delle Due Sicile, consentì di proclamare il Regno d’Italia. Mancavano però ancora il Veneto, il Friuli e il Trentino, rimasti sotto la corona austriaca, e Roma e il Lazio, rimasti sotto il dominio temporale di papa Pio IX ma, soprattutto, sotto la protezione dell’imperatore francese che non intendeva perdere l’appoggio dei cattolici francesi.
Del resto Roma rappresentava per tutto lo schieramento liberale ed indipendentista italiano un obiettivo prioritario. Senza Roma capitale, l’Italia non ci sarebbe mai stata davvero.
Lo stesso Cavour, primo artefice dell’alleanza con la Francia e Napoleone III, aveva fatto proclamare dal Parlamento “Roma capitale” come obiettivo fondamentale del processo unitario italiano già nel marzo del 1861, pochi mesi prima della sua prematura scomparsa.
Per i democratici e Garibaldi Roma rappresentava poi il simbolo stesso della lotta risorgimentale, il sogno della loro gioventù quando nel 1849 avevano proclamato e diretto (Mazzini politicamente e Garibaldi coprendosi di gloria combattendo conto le armate francesi) la straordinaria, anche se breve, esperienza della repubblica romana.
Fosse stato per Garibaldi dopo aver sconfitto i borbonici sul Volturno nell’ottobre del 1860 l’impresa dei Mille avrebbe dovuto proseguire fino alla liberazione di Roma, ma fu Vittorio Emanuele II a fermarlo, su pressione di Cavour che temeva una guerra con la Francia e un terremoto nella politica europea del tempo.
Due anni dopo, siamo nel giugno del 1862, Garibaldi decide di lasciare Caprera e andare in Sicilia. Le cose non vanno bene per il giovane Stato. Praticamente tutto il Mezzogiorno continentale è percorso da una vera e propria guerra civile, il brigantaggio, contro il quale è schierato un terzo degli effettivi dell’esercito italiano in una lotta senza quartiere.
Eppure Garibaldi è accolto con grande entusiasmo in Sicilia e ben presto attorno a lui si radunano circa 2000 volontari armati, pronti a rinverdire le gesta della spedizione dei Mille. Risuona nell’isola il grido: “Roma o morte” e il fascino dell’Eroe dei Due Mondi diventa ancora una volta il catalizzatore di speranze di vario tipo, non ultime quelle di riscatto sociale e di eroica ripresa dell’iniziativa democratica di fronte al grigiore conservatore dell’Italietta savoiarda e “piemontese”.
Il governo, presieduto da Urbano Rattazzi è attonito, incerto. Lascia i suoi funzionari periferici per il momento senza ordini. La cosa più logica sarebbe fermare Garibaldi, magari farlo arrestare prima che faccia danni e provochi una guerra con la Francia. Napoleone III tempesta le cancellerie italiane di messaggi preoccupati e minacciosi. Il re Vittorio Emanuele II è costretto ad intervenire con parole che sanno di sconfessione, contro certi imprudenti iniziative.
Ma Garibaldi non ne tiene conto: già due anni prima Cavour chiedeva che lo si fermasse e Vittorio Emanuele gli scriveva due lettere, una con la quale gli chiedeva di obbedire al Primo Ministro e una con la quale lo invitava a proseguire nella sua impresa e sbarcare in Calabria. L’atteggiamento dell’esercito e della marina sembrano dare ragione a Garibaldi: in Sicilia è lasciato indisturbato nella sua opera di reclutamento e di raccolta delle armi, gli lasciano requisire due battelli per la traversata dello Stretto e solo quando è ormai sbarcato a Melito Porto Salvo, lo stesso posto di due anni prima, gli tirano un paio di cannonate, ma senza troppa convinzione.
Garibaldi si dirige verso l’Aspromonte dove lo raggiungono altri volontari tra cui calabresi, popolani e contadini che continuano a vederlo come “portatore di riscatto, punitore di quegli avversari di classe che avevano tradito entrambi” (A. Placanica, “Storia della Calabria”, Roma, Donzelli, 1999, p.343).
A questo punto, però, il governo interviene: manda contro i garibaldini un distaccamento di bersaglieri comandati dal colonnello Emilio Pallavicini, un tipo “tosto” disponibile anche a sparare contro un monumento nazionale se le circostanze lo avessero richiesto.
Ed è sulla montagna calabrese che i bersaglieri, circa 3500, intercettano i garibaldini. Nonostante Garibaldi avesse dato ordine di non sparare e di non rispondere al fuoco per non fare la guerra contro fratelli, lo scontro ci fu ugualmente e provocò 12 morti e 34 feriti. Lo stesso Garibaldi, che si era fatto avanti forse sperando che alla sua vista i bersaglieri si unissero a lui, fu raggiunto da due colpi, uno all’anca e l’altro nella caviglia che gli provocò una brutta ferita che lo costrinse a mesi e mesi di immobilità.
Si chiudeva, così, nel peggiore dei modi, un episodio assai controverso della nostra storia, con i bersaglieri italiani, un simbolo del nostro Risorgimento, che sparavano contro i garibaldini e il loro capo, altri simboli della nostra epopea nazionale.
Il governo Rattazzi finì nelle polemiche per le sue incertezze inziali e dovette dimettersi, molti funzionari persero il posto, mentre Garibaldi fu rinchiuso nel penitenziario di Varignano, da cui uscì nell’ottobre di quell’anno per effetto dell’amnistia concessa dal re in occasione delle nozze della figlia di Vittorio Emanuele con il re del Portogallo. Una comoda via d’uscita, perché lo Stato italiano non poteva certo permettersi di tenere in prigione troppo a lungo il suo più grande eroe, noto in tutto il mondo.
Un episodio triste, che vide contrapposti ancora una volta gli ideali alla ragion di Stato, il cuore alla ragione. Per la cronaca, dopo un altro sanguinoso tentativo fatto da Garibaldi nel 1867 nella battaglia di Mentana, dove fu sconfitto da francesi e pontifici armati di modernissimi fucili a retrocarica, Roma sarà liberata dai bersaglieri solo nel 1870, dopo la sconfitta di Napoleone III a Sedan ad opera dei prussiani.
Garibaldi, da generoso qual’era, andrà a combattere la sua ultima guerra, ormai anziano e afflitto dall’artrite, proprio in difesa della neonata III Repubblica francese contro i prussiani dimostrando ancora una volta che per lui, la libertà dei popoli era un valore da difendere sempre e comunque, al di là delle convenienze e delle “ragioni di stato”.

 

 

Dopo la giornata di ieri un nuovo Risorgimento è possibile. Grazie Presidente Napolitano

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La giornata del 17 marzo si è chiusa con un grande successo popolare. Milioni di persone hanno affollato, in ogni parte d’Italia, le manifestazioni celebrative dei 150 anni del nostro Stato, segno che questa nostra nazione è viva e vuole restare unita, nonostante i suoi enormi problemi ed una classe dirigente che, eufemisticamente, possiamo definire, non all’altezza della situazione.
Anche la nostra città, la civile, democratica, aperta Cosenza, ha fatto la sua parte e devo dire che mi sento orgoglioso, oggi, di questa mia appartenenza plurale, di essere cosentino, calabrese, meridionale e italiano.
Si, perché l’unità in Italia significa anche questo: l’orgoglio di appartenere allo stesso tempo ad una terra, alla sua storia, alla sua cultura e, allo stesso tempo, ad una comunità ampia dove ognuno porta, con altrettanto orgoglio, una parte di sé.
Non era scontato che ciò avvenisse: questa ricorrenza e gli altri appuntamenti che seguiranno nei prossimi mesi, rischiavano di cadere nel disincanto, nella retorica, nell’ostilità aperta di tanti che, in questo nostro Paese spesso così fazioso, così campanilistico, così “rosicature”, non hanno mancato di far sentire la loro voce.
Merito di un grande Presidente, Giorgio Napolitano, l’aver fatto comprendere, però, che al di là di tutti i nostri problemi, l’Italia viene prima di tutto, e che solo se saremo capaci di restare uniti, di affrontarli insieme, riusciremo a vincere le sfide che abbiamo davanti, provando “orrore per la retorica passatista”.
Ciò non toglie che il nostro è un Paese che rimane troppo diviso, innanzitutto tra Nord e Sud, in una politica in cui gli scontri sono spesso pretestuosi ed ideologici e in cui il senso di responsabilità appare, purtroppo, assai raro.
Il Mezzogiorno, nonostante tutti i suoi problemi, le sue paure in un futuro difficile, ha partecipato con passione, ha rivolto ancora una volta allo Stato la sua domanda di essere parte, finalmente, di una grande nazione, a dispetto di tutte le “padanie” immaginabili e immaginarie.
Napolitano ci ha invitato tutti a guardare al futuro con l’orgoglio di appartenere ad un Paese che rimane grande, nonostante tutto, nonostante noi stessi.
Che a richiamarci a questo sia uno degli ultimi sopravvissuti di una grande stagione politica ed istituzionale della nostra storia repubblicana la dice lunga su una classe dirigente che continua a guardarsi l’ombelico e a litigare come i polli di Renzo.
Tuttavia, qualcosa, ieri, è accaduto: gli italiani di ogni regione e di ogni città hanno dimostrato una maturità straordinaria a dispetto di tutti, hanno fatto apparire le chiacchiere dispensate a piene mani da torme di politici, opinionisti, intellettuali “cassa continua” solo un piccolo, impercettibile brusio.
Forse la possibilità di fare di questo 2011 una occasione per un nuovo Risorgimento di questo Paese è davvero a portata di mano. Ed al Sud possiamo essere, ancora una volta, all’avanguardia e, soprattutto, restarci.

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