Gabriele Petrone

LA MOSTRUOSA NORMALITA’ DEL DELITTO DI CORIGLIANO.

Fabiana Luzzi, la vittima dell'omicidio di Corigliano Calabro

Se fossi il padre della ragazza uccisa a Corigliano i miei sentimenti, oggi, sarebbero di rabbia e di vendetta.

Ho guardato mia figlia ieri, una ragazza quasi della stessa età di Fabiana e ho pensato che, se quell’orrore fosse capitato a lei, non avrei sopportato, forse non sarei sopravvissuto a tanto dolore.

Ho provato sdegno impotente e volontà di annientamento del responsabile di tanta violenza.

Poi ho pensato che sarebbe stata vendetta e non giustizia.

E ho guardato mio figlio, oggi un ragazzetto di 12 anni, mi sono sforzato di vederlo più grande di qualche anno.

E ho pensato che il ragazzo che ha ucciso e torturato ora probabilmente sarà nell’inferno, che solo dopo ore avrà realizzato l’enormità del suo gesto, che ciò che ha vissuto non è come un videogioco in cui le vite si rigenerano dopo averle perdute.

Ho pensato ai genitori dell’assassino che magari in queste ore stanno continuando a chiedersi (e forse lo faranno per tutta la vita, senza alcuna possibilità di risposta) com’è potuto accadere che il loro figlio abbia potuto trasformarsi in quel mostro che giornali e TV raccontano, in cosa e quando hanno sbagliato, in quale momento della loro vita di adulti normali non hanno capito e non hanno aiutato quel bambino diventato ragazzo e oggi omicida.

E allora mi sono convinto che è giusto che la giustizia faccia il suo corso, che la legge aiuti tutti noi ad uscire dai sentimenti contrastanti di queste ore, dalle reazioni emotive.

Nonostante i media che su questa storia staranno per mesi, nonostante la miriade di esperti psicologi, sociologi e quant’altro che parleranno dicendo cose giuste ma che non restituiranno la vita a chi l’ha persa, né alla vittima, né al carnefice.

Spero che, alla fine, tutti quanti noi potremo riflettere.

Perché questo delitto, questo ennesimo caso di femminicidio, per usare un termine entrato nel dibattito corrente, non sia soltanto punito dalla legge ma ci aiuti anche a capire cosa in questo nostro mondo si è rotto e come ricostruirlo.

Magari sforzandoci tutti noi, genitori di ragazzi, ad aiutare i nostri figli, ad insegnare loro il rispetto per gli altri, soprattutto se sono più deboli di noi.

Parlare alle nostre ragazze e soprattutto ai nostri ragazzi, non pensare che il tutto si risolva con il semplice esaudimento dei loro desideri materiali.

Assumendoci tutti quanti le nostre responsabilità di adulti.

Perché l’orrore di Corigliano non è distante da noi; perché possiamo riconoscerlo prima che accada nella sua, purtroppo, mostruosa normalità.

INNOVAZIONE NON NUOVISMO

il futuro del partito nelle mani dei giovani

State certi che se volete strappare unanime consenso anche in una discussione informale prendendo un caffè al bar è sufficiente una tirata sulla necessità di novità: in politica, in TV, nello sport, ecc..

Il nuovo è affascinante per tutti, persino per i conservatori.

D’altro canto, come diceva Catalano buonanima, è retorico chiedersi se è meglio mettere un vestito vecchio e rotto o un vestito nuovo e sano.

La questione è assai più complessa quando si declina il nuovo come categoria della politica, soprattutto in una società come la nostra che, nei fatti, chiude ai giovani ogni prospettiva e ogni opportunità.

Liberare la società italiana e consegnarla alle giovani generazioni rappresenta una vera e propria emergenza democratica ed è uno dei primi compiti della politica, soprattutto della politica di una forza democratica.

Il tema che, però, viene quasi sistematicamente eluso, una volta enunciata la necessità del nuovo e del rinnovamento è quello di come questo nuovo e questo rinnovamento debbano essere effettivamente costruiti.

Qui vediamo che ci si ferma, per incapacità o per calcolo doloso, alla semplice enunciazione, alla proclamazione retorica ed indignata.

In questi anni, invece di costruire per davvero il nuovo si è messa in piedi una insopportabile retorica del nuovo, un nuovo senza alcun pensiero dietro, spesso semplificato al puro dato anagrafico, in una parola si è semplicemente declinato il “nuovismo del vuoto spinto”.

Le ultime elezioni ci hanno consegnato, ad esempio, un forte svecchiamento del Parlamento, ma non mi pare che le cose, almeno finora, stiano andando meglio, anzi.

Assistiamo infatti allo spettacolo di bravi ragazzi che, è l’esempio del Movimento 5 Stelle, per settimane e settimane hanno discusso di scontrini e ricevute. Oppure, nel PD, a giovani deputati così permeabili agli umori di pancia della rete da non garantire al partito che li ha eletti un minimo di tenuta nei momenti cruciali delle prove parlamentari.

La verità è che il nuovo senza un progetto politico, senza una idea di società, senza modelli di riferimento che lo sostengano è destinato a soccombere e a provocare, questo il danno maggiore, un effetto di reazione conservatrice che si riaffida spesso, per insicurezza e per tutela, sotto le ali del peggiore del vecchio.

Vi siete chiesti, ad esempio, perché, nonostante tutta la retorica del nuovo di cui è disseminato il nostro dibattito pubblico i sondaggi danno in crescita un vecchietto di 77 anni e in politica da venti di nome Silvio Berlusconi ?

La rivoluzione francese, il ’68, i grandi movimenti di massa che hanno prodotto profondi cambiamenti nella storia furono prodotti da grandi idee di liberazione portate avanti da persone nuove, non soltanto giovani ma soprattutto giovani.

Perché per produrre cambiamento e innovazione ci vogliono nuove idee non idee nuove.

LEGGE ELETTORALE, IL RE E’ NUDO !!!

renudo

La recente sentenza della Cassazione che ha rimandato alla Corte Costituzionale il famigerato “porcellum” è un pugno nell’occhio alla classe politica che questo sistema ha voluto o, pur opponendosi, nei fatti lo ha mantenuto in piedi col gioco del cerino.

Quanti, in questi anni, hanno guardato con sufficienza al problema, hanno ripercorso il vecchio leit motiv del benaltrismo, hanno moraleggiato demagogicamente con frasi del tipo “la gente non mangia pane e legge elettorale”, non possono più nascondere la testa sotto la sabbia.

Questa legge è stata, lo scrivevo pochi giorni fa, il vero golpe di questi anni.

Ha snaturato il rapporto tra elettori ed eletti, ha creato un Parlamento avulso dai territori e popolato da nominati con l’unica funzione di schiacciare pulsanti su ordine dei capi dei partiti, pena la non ricandidatura e quindi la non rielezione.

Ha immesso nelle forze politiche, a destra e a sinistra, il veleno del conformismo al leader di schieramento, di partito, di corrente.

Ha scatenato sui territori lotte di potere tutte interne e autoreferenziali per conquistare posizioni “utili”, senza alcun rapporto con i cittadini, gli unici a poter decidere col proprio voto vincitori e vinti di una competizione elettorale.

Ha rimesso in circolo vecchie concezioni elitiste e giacobine, secondo le quali il voto popolare va sempre visto con diffidenza e meglio rimane la scelta “illuminata” dall’alto.

Ha degenerato, il termine non vi sembri eccessivo, la funzione stessa del Parlamento come sede della rappresentanza degli interessi diffusi del Paese e, con l’abnorme premio di maggioranza, ha chiuso nel recinto della partigianeria politica contingente le stesse funzioni di garanzia che la Costituzione aveva voluto, appunto, espressione di maggioranze larghe e condivise, perché il governo è di chi vince ma le istituzioni sono di tutti.

Con ogni probabilità, come dicono tutti i costituzionalisti, la Corte potrebbe addirittura provvedere a “cassare” le parti del “porcellum” rilevate come incostituzionali, mettendo il Paese di fronte ad un sistema elettorale puro che rappresenterebbe la pietra tombale sull’unica cosa buona prodotta dalla cosiddetta Seconda Repubblica, il bipolarismo.

Il tempo del “tirare a campare per non tirare le cuoia” è scaduto.

Si intervenga e si faccia una legge che garantisca governabilità, rappresentanza e diritto di scelta degli elettori del proprio deputato nel e del proprio territorio.

Ne va della democrazia italiana che, scusate, è importante quanto il pane e il companatico.

RICORDIAMO ENZO TORTORA MA EVITIAMO IPOCRISIE

Enzo Tortora arrestato

Venticinque anni fa, il 18 maggio 1988, moriva Enzo Tortora.

Enzo Tortora fu accusato ingiustamente di essere un affiliato della camorra, costretto in carcere, massacrato mediaticamente, condannato in primo grado e assolto in appello con formula piena.

Un errore giudiziario clamoroso che lo portò alla morte.

Enzo Tortora si difese sempre con determinazione nel processo, arrivando persino a rinunciare all’immunità di parlamentare europeo. Altra tempra, altro uomo.

Fu grazie alla battaglia condotta da Enzo Tortora che gli italiani diedero un consenso plebiscitario al referendum che introduceva la responsabilità civile dei giudici “per colpa grave”.

Tuttavia, la legge Vassalli che uscì fuori da quel referendum, stabilì che il cittadino che ha subito le conseguenze di un errore giudiziario può rivalersi sullo Stato che pagherà un risarcimento e solo dopo, eventualmente, lo Stato può rivalersi sul giudice che ha sbagliato ma solo “entro un terzo di annualità dello stipendio”.

Non ho notizia che questo secondo passaggio si sia mai verificato negli ultimi venticinque anni, mentre ammontano a parecchi milioni di euro le somme pagate dallo Stato per ingiusta detenzione.

In buona sostanza, i magistrati continuano ad essere l’unica categoria di impiegati pubblici i cui errori commessi per “dolo o colpa grave” vengono pagati da tutti i cittadini e che di persona non ne subiscono alcuna conseguenza, neppure, che so, il semplice trasferimento d’ufficio.

Sarebbe dunque bene che, ricordando Tortora, si evitassero facili ipocrisie e ci si rendesse conto che, Berlusconi a parte, in Italia esiste una questione giustizia grande quanto una casa.

IL VERO “GOLPE” SAREBBE MANTENERE IN VITA IL “PORCELLUM”

Una vignetta satirica subito dopo l'approvazione del "porcellum"

Questa sera, insieme ad altri dirigenti e militanti del PD e del centrosinistra sarò a Lamezia Terme all’iniziativa convocata dal Presidente della Provincia di Cosenza Mario Oliverio e dal Sindaco di Crotone Giuseppe Vallone per chiedere l’abolizione del “porcellum”.

La mobilitazione sta riscuotendo in queste ore numerose adesioni tra cui quella della parlamentare del PD Enza Bruno Bossio che giustamente ha chiesto che il PD si impegni a modificare subito la legge elettorale che ci ha consegnato la situazione di ingovernabilità in cui ci troviamo.

Tornare a votare con il “porcellum”, dice Enza Bruno Bossio, sarebbe doloso, e significherebbe, con ogni probabilità, ritrovarsi nella stessa situazione che ci ha costretto ad un governo di necessità.

Chi mi segue sa che sulla questione della legge elettorale più volte dalla mia modesta postazione sono intervenuto, aderendo anche ad iniziative referendarie che, purtroppo, non hanno avuto alcun esito.

Diciamoci la verità, alcuni aspetti di questa legge stanno bene a tutti, PD compreso, che pure ha cercato (e gliene va dato atto) di stemperarne uno degli aspetti più odiosi ( le liste bloccate) con le primarie.

In particolare la legge Calderoli varata con un colpo di mano sul finire del 2005 da un centrodestra che voleva limitare la vittoria elettorale di Prodi, presenta parecchi elementi discutibili, non ultimo quello del premio di maggioranza alla Camera che viene assegnato alla prima forza o coalizione, senza alcun limite, tanto da fa esprimere più volte la Corte Costituzionale nel senso di una correzione.

Paradossalmente, se in Italia si verificasse il caso di una frammentazione ancora più spinta di quella che abbiamo oggi, per cui ci fossero 5 forze che prendono ciascuna il 20%, l’abnorme premio di maggioranza del 55% dei seggi verrebbe assegnata alla forza che ha preso il 20% più un voto, e il restante 80% sarebbe costretto a spartirsi il restante 45% dei seggi. Una aberrazione democratica, senza contare che, per quanto riguarda il Senato, dove la maggioranza è assegnata su scala regionale, nessuna forza, come è avvenuto nelle ultime elezioni dove l’elettorato si è diviso sostanzialmente in tre parti, otterrebbe la maggioranza dei seggi.

Un vero e proprio pateracchio se si considera che persino la famigerata legge Acerbo varata da Mussolini per consolidare il proprio potere prevedeva un limite minimo per accedere al premio di maggioranza del 25% su scala nazionale.

Ma il “porcellum” è odioso soprattutto per le liste bloccate. Gli eletti vengono determinati sulla base della percentuale conseguita dalla lista in ragione del loro posizionamento. La lista, d’altro canto, non appare sulla scheda così che all’elettore viene data solo la facoltà di scegliere il partito e la coalizione ma non il proprio rappresentante.

Non si tratta di cosa di poco conto: in Italia non era mai successo se si esclude il periodo fascista quando i deputati venivano eletti con un plebiscito nel quale agli elettori veniva chiesto di approvare con un Si o bocciare con un No il listone di deputati predisposto dal Gran Consiglio del Fascismo. O con la preferenza all’interno di una lista o con un voto sul candidato del collegio uninominale le diverse leggi elettorali del nostro Paese, dal 1861 ad oggi, avevano sempre garantito quello stretto legame di fiducia tra elettore, eletto e territorio, che è poi l’essenza stessa della democrazia.

Si, perché il “porcellum” ha prodotto come effetto soprattutto questo: la frattura tra eletti ed elettori, con i primi con rispondono neppure al territorio che li esprime (la possibilità di candidature multiple in diverse circoscrizioni è un altro aspetto di questo problema) ma solo alle ristrette elite dei partiti romani che li hanno indicati in posizione utile in lista e i secondi che non possono esercitare alcun controllo su di essi, sia pure per richiamarli semplicemente ai loro doveri rispetto al territorio che li ha portati in Parlamento.

Questa legge elettorale ha prodotto uno snaturamento del principio democratico che vuole il parlamentare come espressione della volontà della nazione, in nome della quale esercita il proprio mandato senza alcun vincolo, come dice la nostra Costituzione.

Chi l’ha varata e chi, al di là della propaganda, ne ha consentito la sopravvivenza, per meri calcoli di bottega come maldestri apprendisti stregoni hanno prodotto una ferita drammatica al nostro sistema rappresentativo i cui effetti si sono dispiegati pienamente dopo le ultime elezioni.

Non voglio esagerare ma il vero “golpe” di cui tanto si parla a sproposito si è verificato consentendo a questa legge di liberare i suoi effetti nefasti sul nostro sistema.

Cambiarla è dunque un dovere democratico da cui dipende il futuro stesso delle nostre istituzioni.

 

Fabrizio Barca e il “catoblepismo” calabrese

fabrizio Barca

Pubblicato su “Calabria Ora” del 12 maggio 2013

Alzi la mano chi conosce il significato del termine “catoblepismo”.

No, non preoccupatevi, credo che in Italia siano davvero in pochi, senza l’ausilio di Santa Wikipedia, a sapere che questa parola tanto astrusa significa “circolo vizioso”, rapporto distorto fra due soggetti di cui uno chiamato a controllare e l’altro ad essere controllato.

L’ex ministro Fabrizio Barca, oggi nelle vesti di nuovo commentatore del PD nel PD (categoria assai affollata di questi tempi) l’ha usata per definire la relazione distorta che è intervenuta spesso nel rapporto tra partiti e Stato.

Parola difficile usata nel contesto di ragionamenti colti, quelli che di solito animano il discorrere di Fabrizio Barca. Eppure qualcuno deve avergli consigliato di parlare un tantino più potabile e, infatti, nella sua visita in Calabria l’ex ministro ha sviluppato discorsi molto più chiari.

Ha detto, per esempio, che la Calabria è stata “mal governata anche dal centrosinistra”. Poi si è espresso con nettezza quando ha chiesto retoricamente riferendosi all’allagamento degli scavi di Sibari “dov’era il PD ?”.

Tutto condivisibile il discorrere di Barca salvo che nell’aver trascurato uno dei “catoblepismi” calabresi. Infatti, nei cinque anni di governo del centrosinistra in Calabria per tre anni la delega ai beni culturali (quindi competente sul parco archeologico di Sibari) è stata tenuta da uno dei suoi punti di riferimento calabresi, insieme alla vicepresidenza della Giunta regionale.

Senza trascurare il fatto che la personalità in questione fa parte di una scuola di economisti e maitre à penser che da anni ha costituito il centro di elaborazione e per lunghi periodi di gestione e direzione politica della programmazione dei fondi europei in Calabria, scuola di cui l’eminente prof. Fabrizio Barca è capofila.

Allora forse un tantino di prudenza maggiore sarebbe stata necessaria perché se saranno pochi i calabresi che conoscono il significato di “catoblepismo” certamente tutti conoscono la vecchia pratica del predicar bene e razzolare male di cui è pervasa non solo la politica ma anche l’intellighenzia prestata alla politica. E forse Fabrizio Barca la prossima volta farà bene a cambiare esempi per sostenere la sua “mobilitazione cognitiva”.

GIULIO ANDREOTTI: UN UOMO DI POTERE IN UN PARTITO CONDANNATO AL POTERE.

Andreotti

Quando scompaiono personalità come quella di Giulio Andreotti non si può fare a meno dal rifuggire da giudizi semplicistici e liquidatori.

Lo si deve alla grandezza di un personaggio che comunque è parte fondamentale della storia d’Italia degli ultimi settant’anni.

Lo si deve, lasciatemelo dire, all’intelligenza dei cittadini, ai quali non può essere propinata la solita lettura “giudiziaria” di una vicenda vasta e tragica che è quella dell’Italia del dopoguerra, delle sue luci e delle sue ombre.

Andreotti fu, soprattutto, un uomo politico e un uomo di stato. Fu un uomo di potere in un partito condannato dalla situazione internazionale a restare comunque al potere, la Democrazia Cristiana. Un partito in cui lui e la sua corrente non furono mai maggioranza ma spesso rappresentarono il punto (di potere, appunto) più avanzato di equilibrio.

Proprio per questo l’uomo nella sua vita, ha suscitato più odio che amore.

Andreotti fu odiato dai comunisti che in lui vedevano la personificazione di tanti mali: la DC, i cattivi “amerikani”, la mafia. Sì, perché per tanti comunisti Andreotti era mafioso ben prima che il processo di Caselli e il presunto “bacio” di Riina dessero credito a questa tesi.

La sua stessa figura fisica sembrava richiamare l’antica idiosincrasia ipocrita di tanti intellettuali italiani per la politica intesa come intrigo, segreto, manovra. Di che meravigliarsi ? Siamo il Paese che ha dato i natali a Machiavelli e nello stesso tempo più odia Machiavelli.

Ma Andreotti era odiato anche da tanti democristiani nell’infinito gioco delle correnti contrapposte dalle quali sembrava emergere sempre lui, nonostante tutti e tutto. Neanche nel PSI era particolarmente amato.

In verità Andreotti fece, nelle condizioni storiche date, quello che si richiedeva ad un politico moderato nato dal patto degasperiano di tenere fuori l’Italia dall’influenza sovietica.

I dirigenti comunisti più accorti e tutti coloro che conoscevano la politica, quella vera, lo sapevano e ad Andreotti riconoscevano il ruolo che si era assunto. Lo riconoscevano e lo rispettavano.

Poi la vicenda giudiziaria: molti l’hanno ricordato e non posso non tornarci. Andreotti si difese nel processo e non pretese di difendersi dal processo. Altro uomo, altra stoffa. E tuttavia quel processo fu, per me, un grave vulnus alla vicenda politica e sociale del Paese, la cui storia non può essere letta come un romanzo criminale.

Intendiamoci, non sostengo che la politica non si processa, anzi. Credo invece che sia la storia a non potere essere letta con le lenti di un processo giudiziario. I processi devono stabilire se ci sono reati e punirli. Non possono scrivere la storia di un Paese.

Sarà dunque la storia ad assegnare torti e ragioni. L’ha già fatto, se ci pensiamo bene.

In attesa che qualcuno con meno pregiudizi e maggiore obiettività la scriva, rendiamo ad Andreotti il rispetto che gli è, comunque, dovuto.

 

ESSERE ALL’ALTEZZA DELLA…BASE

PD foto

Perché una classe dirigente deve essere in grado di dirigere e non essere diretta.

Ricorre in questi giorni di animate discussioni il ricorso alle formule magiche: “ascoltare la base”, “rispettare la volontà della base”, ecc.. La base di cui si parla assume contorni mitologici, è una specie misteriosa, la personificazione dell’altrettanto mitica (e talvolta evocatrice di storici e feroci “terrori”) “volontà del popolo”.

La democrazia moderna, sin dalla sua nascita, ha dovuto fare i conti con la cosiddetta “volontà del popolo” che talvolta si esprimeva nei cangianti umori delle folle spesso agitate da spregiudicati demagoghi. Infatti, ogni volta che ci si è affidati agli umori incontrollati del cosiddetto “popolo”, i guai sono stati sempre assai grossi.

Si decise così di ricorrere alla democrazia rappresentativa: il popolo elegge col metodo “una testa un voto” i propri rappresentanti che ne interpretano la volontà collettiva pur dentro il principio di maggioranza.

Insomma, se riflettiamo bene il problema del rapporto tra rappresentante e rappresentati è l’essenza della democrazia e, se vogliamo, della politica stessa. La politica ha, come scopo essenziale, proprio quello di trasformare una volontà diffusa (e spesso confusa) in scelte, in governo. Il tutto nella consapevolezza che non sempre ciò che si urla in piazza corrisponde davvero alla volontà della maggioranza del popolo o, comunque, ai reali e concreti interessi della maggioranza del popolo.

Sta, dunque, al rappresentante essere all’altezza della base che lo ha eletto, avendo anche la capacità di saper spiegare e orientare, insomma, essere classe dirigente che, appunto, dirige.

Ciò che vale per gli stati, vale, ovviamente, anche per i partiti.

Faccio due esempi: dopo la guerra se Togliatti avesse ascoltato, sic et simpliciter, la base del PCI mai avrebbe concesso l’amnistia agli ex fascisti. Invece Togliatti fece proprio questo (magari anche esagerando in clemenza) perché la pacificazione serviva al Paese e al suo stesso partito per farlo diventare una forza di massa pienamente inserita in un sistema democratico maturo.

Ancora, negli anni ’70 nella base del PCI tanti guardavano al terrorismo se non con favore, con una certa comprensione, coniando il termine “compagni che sbagliano”. Per fortuna nel gruppo dirigente del PCI di allora non solo nessuno li ascoltò ma contro queste posizioni fu condotta una fortissima battaglia politica interna. Per fortuna della democrazia italiana completamente vinta.

Insomma, a me piacerebbe un partito con gruppi dirigenti in grado di fare i dirigenti e di essere all’altezza della propria base. E’ chiedere troppo ?

 

La blogger cubana Yoani Sanchez contestata a Perugia

Sanchez contestataSanchez

Domenica scorsa la nota blogger cubana Yoani Sanchez era stata invitata a tenere una conferenza al Festival del giornalismo di Perugia. Proprio nel momento in cui stava per prendere la parola è stata rumorosamente contestata da una trentina di “castristi” italiani.

Che esistessero “castristi” in Italia mi giunge nuova. Non mi sorprende, però, l’intolleranza ideologica di certa parte della sinistra italiana, per fortuna elettoralmente e politicamente ormai assai marginale nel nostro Paese.

La giovane cubana che con grande sacrificio personale e non poche persecuzioni conduce la sua battaglia per la libertà di informazione nel suo Paese, ha espresso un commento che è stata come una lapide per i contestatori: “Anche noi a Cuba vorremmo protestare come hanno fatto loro. E’ bello vedere gente libera di manifestare e per questo li ringrazio. Le loro proteste rendono più alta la mia voce”.

La cosa più sorprendente è che questi “castristi” italiani si sono dimostrati anche più intolleranti di quelli originali, che comunque alla Sanchez hanno concesso un permesso per un ciclo di conferenze in Europa.

A Cuba sono stato anch’io, due volte. Del mito rivoluzionario di Fidel Castro e Che Guevara, sinceramente, ho ritrovato ben poco. Solo molta miseria, una popolazione comunque molto dignitosa e, nonostante tutto, allegra.

La stessa allegria con la quale dico ai “castristi” italiani: “una risata vi seppellirà”.

 

Enza Bruno Bossio: “Io voterò questo governo, ma non continuerò a farmi travolgere dalla valanga. Voterò la fiducia ma non voterò le fiducie. Non accetterò le giustificazioni del governo Monti”.

ENZA BRUNO BOSSIO

La deputata calabrese del PD nel suo intervento all’Assemblea del Gruppo sulla fiducia al governo Letta.

Premesso che avrei voluto ad ogni costo un governo senza il PdL. Non un governo massimalista ma un governo riformista, con la contraddizione che la maggioranza avremmo dovuto cercarla anche tra i massimalisti. Pur avvertendo questa contraddizione ho appoggiato incondizionatamente e con convinzione la linea di Bersani. Avrei voluto che Napolitano avesse consentito di verificare la maggioranza anche al Senato, anche per provare a rompere l’aggregazione massimalista. Avrei voluto con più chiarezza, quando è stato proposto Marini, discutere di una rosa di nomi e come e intorno a chi costruivamo una maggioranza nelle prime ma anche nella quarta votazione. E avrei voluto capire meglio perché abbiamo abbandonato Marini. Nel momento in cui si è scelto Prodi e si è di nuovo rovesciata una linea avrei voluto, aldilà delle ovazioni e delle alzate di mano, di nuovo discutere con quale maggioranza si andava ad eleggere Prodi, visto che non c’era nemmeno Scelta civica sulla proposta e il M5stelle non si sarebbe spostato dalla proposta Rodotà. Avremmo potuto votare Rodotà ? Forse, ma nel frattempo la valanga era partita. E la cosa più grave che tutti noi siamo diventati traditori, con una vergognosa distinzione nelle votazioni tra Marini e Prodi. Ci sono stati vari errori ma non ci sono traditori, è un concetto integralista che non condivido. Che ha anche alimentato qualunquisticamente una valanga che era già partita e ci ha travolti tutti. E non importa se qualcuno di noi ha fatto, nonostante le proprie convinzioni, il proprio dovere. La valanga ci ha travolti e l’accettazione da parte di Napolitano ci ha solo fatto prendere respiro, ma siamo fuori appena con la testa. Tutto ciò premesso: io ho detto nelle consultazioni che a questo punto avrei votato un governo con qualunque ministro del PdL. Non c’è contraddizione. Non si può andare al voto. Non perché abbiamo paura di perdere. Ma perché dobbiamo fare delle scelte immediate che risolvano alcune urgenze sociali ineludibili. Io voterò questo governo, ma non continuerò a farmi travolgere dalla valanga. Voterò la fiducia ma non voterò le fiducie. Non accetterò le giustificazioni del governo Monti. Non accetterò l’esclusione del Mezzogiorno non come questione locale, ma come area decisiva di esplosione delle contraddizioni della crisi. È un gesto disperato ma non casuale quello dell’attentato davanti a Palazzo Chigi. Votando la fiducia a questo governo ognuno di noi parlamentari ci metterà la faccia, per questo dobbiamo subito: 1. Negoziare con l’Europa il vincolo della politica dell’austerità 2. Attuare il decreto imprese 3. Recuperare 1,5 miliardi per esodati e cassaintegrati 4. Avviare un percorso per un nuovo welfare 5. Salario minimo ( per gli occupati) e reddito minimo per i disoccupati 6. Legge elettorale per ridurre i costi della politica e affermare con nettezza la democrazia dell’alternanza. Tutto questo deve avvenire in tempi necessari ma rapidi per recuperare pienamente il ruolo di partito riformista alternativo e vincere perché abbiamo saputo governare.

 

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