Cultura
Ma Cetto La Qualunque doveva essere per forza calabrese ?
Pubblicato su Calabria Ora il 22 gennaio 2011
In questi giorni si fa un gran parlare del film di Antonio Albanese “Qualunquemente”.
Il film, preceduto dal grande successo del personaggio di Cetto La Qualunque in TV nella trasmissione di Fazio, si preannuncia come campione di incassi. Qualcuno l’ha definito l’evento satirico del 2011, rilevando riferimenti tra il personaggio laido, corrotto e ladro di Cetto con le cronache quotidiane che riguardano il Presidente del Consiglio. Lo stesso Albanese non ha mancato di sottolineare come la cronaca spesso supera la fantasia cinematografica. Il film sarà certamente divertente e andrò a vederlo, anche se, a mio parere, è solo un film comico, una commedia, e non un’opera satirica.
La satira infatti è una forma artistica caratterizzata dall’attenzione critica alla politica e alla società, perché ne mostra le contraddizioni e soprattutto cerca di promuovere il cambiamento. Per essere satirico, quindi, un film o una qualunque forma di espressione artistica, non è sufficiente che contenga una critica e faccia sorridere sui mali della politica e della società, ma deve anche contenere una forma di “proposta” che possa suscitare quella famosa volontà di cambiamento.
La satira, nei secoli, è stata temuta dal potere soprattutto per questo: è la voce del bambino che urla il re è nudo, e ne svela irrimediabilmente le debolezze.
Fatta questa premessa che ritengo essenziale vengo al merito del film del lombardo Albanese: Cetto La Qualunque è quanto di più disprezzabile rappresenti certa politica oggi: è corrotto, clientelare, tangentista, evasore fiscale, maschilista, ecc.. Caratteristiche che sono presenti in egual misura a tutte le latitudini del nostro Paese. Mi chiedo, quindi, assai retoricamente, perché esso dovesse essere per forza calabrese.
Dicendo questo non intendo fare il solito discorso di calabresità offesa o ferita né negare che certa politica calabrese spesso superi nella realtà la caricatura di Albanese. Sono però convinto che se La Qualunque si chiamasse Brambilla e parlasse padano non sarebbe meno comico.
Ma Cetto La Qualunque è calabrese, diciamocelo con franchezza, perché la Calabria oggi è vista, è rappresentata (e, perché no, spesso si autorappresenta) come il peggio nazionale, la Gomorra d’Italia.
Guardando Cetto si è indotti a pensare, però, fuori dalla nostra regione, che tutti i politici ed amministratori siano come quella caricatura e magari sfugge la realtà di tanti politici ed amministratori, la maggioranza, che non solo non sono come Cetto, ma che quotidianamente si sforzano di fare il loro dovere come dimostrano le centinaia di intimidazioni mafiose o criminali (la Calabria ha anche questo triste primato, purtroppo) che subiscono.
Cetto quindi è una facile caricatura perché, in fondo rassicura, conferma pregiudizi e stereotipi: lombardi, veneti, piemontesi o toscani si sentono rassicurati perché possono continuare a pensare che la malapolitica sia solo un problema meridionale e calabrese. Ma rassicura anche certa sinistra giacobina e radical-giustizialista (dislocata in tutto il Paese e anche al Sud) perché le consente di restare rinchiusa nella propria visione manichea di un bene contrapposto al male, nella orgogliosa presunzione della propria diversità etica e morale. Cetto La Qualunque, infine, non fa paura al potere (che oggi è di destra, populista e berlusconiano) perché colloca la malapolitica in una dimensione comica e caricaturale, quindi sostanzialmente non riferibile a fatti concreti.
“Qualunquemente” è dunque un film comico, non una satira politica o di costume: dopo averlo visto e averci riso sopra ai calabresi e agli italiani resta il problema tutto aperto di rinnovare e cambiare la politica superando pregiudizi e stereotipi e guardando il merito delle questioni, una volta tanto.
Chi era Eleonora Fonseca Pimentel e perché bisogna imitarne l’esempio in questi tempi di giustizialisti neoborbonici
Nata da famiglia portoghese a Roma il 13 agosto del 1752, Eleonora De Fonseca Pimentel (poi Eleonora Fonseca Pimentel) dimostrò sin dall’infanzia intelligenza precoce e propensione negli studi letterari. Poliglotta e appassionata di poesia fu avviata dalla famiglia nel 1778 al matrimonio con un capitano dell’esercito napoletano, Pasquale Tria De Solis da cui ebbe un figlio, Francesco, morto in tenerissima età.
Il contrasto tra due caratteri completamente diversi portò al fallimento del matrimonio nel 1786. La coppia si separò dopo che una seconda gravidanza di Eleonora fu interrotta a causa delle percosse subite dal marito (che morirà nel 1795).
L’arrivo alla corte di Napoli della regina Maria Carolina d’Asburgo, figlia della grande Maria Teresa e sorella della regina di Francia Maria Antonietta portò a Napoli una ventata di novità e di apertura alle nuove idee illuministe.
La regina, entrata in virtù di un accordo prematrimoniale con il re Ferdinando VII di Borbone nel Consiglio della Corona, cominciò a circondarsi di intellettuali e protagonisti dell’illuminismo napoletano, tra cui la stessa Eleonora, che divenne intima della sovrana.
Il precipitare della situazione politica in Francia con lo scoppio della rivoluzione (14 luglio 1789) spostò progressivamente la pur aperta ed intelligente Maria Carolina su posizioni reazionarie e alla rottura con i circoli illuministi di Napoli che invece della rivoluzione francese erano divenuti aperti sostenitori. L’esecuzione di Maria Antonietta a Parigi il 16 ottobre del 1793, fece precipitare la situazione con l’adesione del Regno di Napoli alla Prima Coalizione contro la Francia rivoluzionaria.
Eleonora, che era diventata curatrice della Biblioteca della regina, ruppe con la sovrana e divenne una delle protagoniste dei circoli “giacobini” napoletani arrivando perfino ad eliminare il “de” dal suo cognome per segnare il suo distacco dai titoli nobiliari.
Quando nel novembre del 1798 una maldestra offensiva dell’esercito napoletano contro la neonata repubblica giacobina di Roma provocò l’invasione del regno di Napoli da parte delle (a dire il vero assai scarse) truppe francesi del generale Championnet, la Corte abbandonò la capitale a bordo delle navi inglesi di Orazio Nelson alla volta di Palermo, i rivoluzionari napoletani si impossessarono del potere e proclamarono la Repubblica Partenopea. Eleonora divenne subito una delle personalità più eminenti della repubblica dirigendone l’organo ufficiale, il Monitore Napoletano (che uscì dal 2 febbraio all’8 giugno del 1799 in 35 numeri quindicinali).
Il fatto che la “voce” ufficiale della repubblica fosse diretto da una donna era esso stesso il segno di una vera e propria rottura con l’Ancien Régime e suscitò discussioni anche nei “maschilisti” circoli giacobini del regno.
Facevano discutere anche i toni degli articoli di Eleonora (firmati spesso con la sigla EFP) profondamente intrisi di radicalismo rivoluzionario e di profondo spirito egualitario. Eleonora si fece promotrice dell’esigenza di educare il popolo alle nuove idee, proponendo leggi per combattere l’analfabetismo e per l’istruzione pubblica, per la quale si impegnò direttamente con conferenze nella Sala d’Istruzione Pubblica istituita a Napoli.
Divenne così il principale obiettivo polemico dei circoli conservatori e il nemico numero uno della Corte in esilio a Palermo. Il re e la regina la apostrofavano come “meretrice” degli usurpatori, i lazzari e i sanfedisti le dedicavano canzoni ingiuriose.
Quando le truppe sanfediste entrarono a Napoli il 13 giugno del 1799 Eleonora si era rifugiata con gli altri rivoluzionari nel forte di Sant’Elmo, ottenendo in cambio della resa la possibilità di abbandonare il regno con le truppe francesi.
L’accordo sottoscritto con il Cardinale Ruffo, che vi aveva impegnato la sua parola d’onore, fu però disatteso dalla corte e da Orazio Nelson, e i “ribelli” napoletani furono tutti arrestati e condannati a morte.
Eleonora aveva chiesto di poter essere decapitata, ma neanche questo le fu concesso e avviata alla più infamante impiccagione il 20 luglio del 1799 nella Piazza del Mercato a Napoli.
Prima dell’esecuzione fu sottoposta ad oltraggi e torture umilianti. Chiese un laccio per potersi legare le vesti dal momento che le erano state strappate via le mutande e non dover subire l’ulteriore umiliazione di mostrare il proprio ventre nudo al ludibrio del popolo.
Venne giustiziata per ultima dopo i suoi compagni Gennaro Serra di Cassano e Giuliano Colonna di Aliano, il vescovo Michele Natale, il botanico Nicola Pacifico, il banchiere Domenico Piatti, il figlio di lui Antonio, l’avvocato Vincenzo Lupo. Prima di porgere il collo al cappio del boia mormorò in latino un frammento di Virgilio: Forsan et haec olim memisse juvabit (Forse un giorno gioverà ricordare tutto questo).
Il suo corpo venne lasciato penzoloni per un giorno intero mentre i lazzari cantavano:
‘A signora Donna Lionora
ehe alluccava ‘ncopp’ ‘o triatro
mo’ abballa miezo ‘o Mercato,..
Il corpo, ritrovato di recente, fu deposto nella cappella di Santa Maria di Costantinopoli poco distante da Piazza del Mercato.


