Cultura

Il tradimento è davvero la colpa più grande

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Dante Alighieri al centro dell’Inferno, insieme a Lucifero, traditore di Dio, pone i più grandi traditori della storia, Giuda, Bruto e Cassio. E’ evidente come per il grande fiorentino il peccato più grande fosse il tradimento, il tradimento di Dio e quello di Cesare che impersonava lo Stato. Nel girone precedente sono puniti i traditori dell’ospitalità, nell’ultimo quelli dei benefattori dell’umanità, immersi nel ghiaccio e continuamente dilaniati da Lucifero, che è allo stesso tempo dannato e carnefice, conficcato nel centro dell’Inferno. Perché questa scelta ? Al di là delle diverse interpretazioni, io non sono un dantista, credo che il Sommo Poeta abbia voluto dirci, lui che di
solito ha nei confronti del peccato un atteggiamento ispirato alla pietà, che tradire è davvero il peccato più grande, quello più imperdonabile e il meno giustificabile in assoluto. Tradire la fiducia e la considerazione del proprio prossimo, inteso qui come la persona a cui si sta più vicini e in generale quelle che si ha il dovere di proteggere e sostenere, va al di là di ogni perdono e di ogni possibile redenzione.
E’ davvero così ? Fermo restando che, come in tutte le colpe, non solo da un punto di vista cristiano, esiste un diverso grado di responsabilità e in assoluto una possibilità di redenzione, è davvero il tradimento il peccato più grande ? E il tradimento può trovare una qualche giustificazione ? Forse che Giuda non tradì il Cristo perché deluso dal fatto che non fosse il liberatore politico del popolo ebraico che certa tradizione giudaica individuava nel Messia ? E perché Pietro, che pure rinnega il Cristo è non solo perdonato ma addirittura posto a capo della Chiesa ? Pietro si penti, certo, ma anche Giuda non si pentì del suo gesto fino a punirsi con il suicidio ? E ancora Bruto e Cassio non tradirono forse Cesare per ragioni politiche, volendo restaurare la Repubblica contro la sua dittatura? Non erano forse nobili le loro motivazioni ? Eppure lo stesso nome di Bruto evoca, ancora oggi, l’aberrazione della colpa violenta contro il bene, l’idea stessa del tradimento. Senza tediare oltre io credo che Dante avesse in fondo ragione: tradire è davvero il peccato più grande se ad esso si aggiunge una colpa ancora più grande, la slealtà.
Giuda, a parte il peccato del suicidio, rifiuto della vita dono di Dio, tradì il Cristo sull’onda di un comportamento sleale, perché vendette Gesù ai suoi nemici per denaro, dividendo il suo pane fino all’ultimo istante. Il peccato di Pietro era invece mosso da debolezza e da paura, poteva essere perdonato.
Bruto e Cassio tradirono Cesare per restaurare la Repubblica, ma lo fecero dopo aver accettato da Cesare onori e cariche, comportamento certo poco coerente ad una battaglia politica di cui volevano essere i protagonisti. Se volevano battersi contro Cesare avrebbero potuto farlo apertamente e probabilmente non sarebbero passati alla storia come traditori, ma come combattenti per la libertà. E’ pure vero, però, che senza questo comportamento difficilmente avrebbero potuto sorprendere Cesare e ucciderlo.
Così in politica, ad esempio, cambiare idea o posizione è lecito e frequente, sarebbe incomprensibile se non fosse così. Ovviamente il cambiamento di posizione politica comporta il cambiamento anche di relazioni e alleanze tra gruppi dirigenti. Nulla quaestio, il problema, tuttavia, è anche qui quello della lealtà. Se un politico cambia idea ha il dovere di dirlo, dichiararlo a prescindere dal fatto se ciò gli produrrà un vantaggio o meno, e deve dirlo soprattutto a chi gli è stato più prossimo fino a quel momento. Troppo comodo tradire per avere vantaggi da nuovi padroni quando quelli vecchi non hanno più il potere di garantire quelli prima elargiti, o di garantirli nella stessa entità.
In questo senso credo che tradire sia davvero la colpa più grande. Fermo restando, per i grandi, l’esercizio della facoltà del perdono. Ma il perdono ha anch’esso dei limiti, come ci insegna la vicenda di Giuda ?

Una storia parallela: cangaceiros brasiliani e briganti italiani

Immagini articolo una storia parallela con didascalia
Cosa possono mai avere a che fare i briganti meridionali con un paese lontano e completamente diverso come il Brasile ? Può sembrare strano ma quasi contemporaneamente alle vicende del brigantaggio italiano nel Sud si sviluppò nelle aree più povere dell’immenso stato-continente brasiliano un fenomeno di brigantaggio con caratteristiche assai simili, non solo per il legame con le aspirazioni sociali di una popolazione rurale alla quel venivano conculcati i diritti fondamentali, ma anche per i brutali metodi repressivi adottati per debellarlo.
Fu chiamato “cangaco”, letteralmente “giogo”, per l’abitudine che questi banditi avevano di portare il fucile di traverso sul collo appunto come un giogo dei buoi. L’area in cui questo fenomeno si sviluppò sin dal settecento finendo per assumere caratteri quasi di massa fino alla fine degli anni ’30 del 900 è quella del cosiddetto Nord-Este, caratterizzato dal “sertao”, letteralmente deserto, in realtà una specie di pampa attraversata da pochi fiumi, con scarsissime precipitazioni e da una bassa vegetazione fatta di arbusti e piccoli alberi spinosi denominata “caatinga”. Niente a che vedere con i boschi montani del Mezzogiorno che invece furono il teatro del brigantaggio meridionale, ma simili i problemi sociali: la presenza di grandi proprietari terrieri che avevano monopolizzato il possesso delle rare fonti d’acqua, fondamentali per l’attività prevalente, quella del pascolo di bovini, equini e ovini.
La popolazione del “sertao” (che si estende per gli stati di Cearà, Piauì, Rio Grande do Norte, Paraìba, Pernambuco, Alagoàs, Sergife e Bahia) i “sertanjas”, era composta prevalentemente da meticci dispersi in un territorio immenso e dediti ad attività legate alla pastorizia e ad una agricoltura di sussistenza, sfruttati indiscriminatamente dai “coroneis” (colonnelli). Il termine “coroneis” non aveva un valore militare ma definiva generalmente i grandi latifondisti, alcuni discendenti dei vecchi feudatari portoghesi a cui la corona lusitana aveva affidato il governo politico e militare di quegli immensi territori e che avevano conservato il loro potere con l’indipendenza del Brasile, altri feroci uomini “nuovi” che si buttavano nell’aspra lotta per la conquista della ricchezza rappresentata dalla terra, soprattutto quando, tra la fine dell’800 nei primi decenni del ’900, esplose la febbre del caffè, del cacao e del caucciù che porterà il Brasile ad un poderoso sviluppo economico.
I “coroneis” erano dei padroni assoluti, controllavano la polizia, la magistratura, il governo locale: imponevano il loro potere con la violenza anche direttamente,servendosi di bande armate assoldate alla bisogna, spesso delinquenti comuni ai quali era data licenza di uccidere, stuprare e compiere ogni nefandezza ai danni dei poveri “sertanjas” che erano, nei fatti privati di ogni diritto. Quando la siccità imperversava erano costretti a drammatiche migrazioni in condizioni ambientali terrificanti, senza alcuna speranza di riuscire a sostentare se stessi e le proprie famiglie.
In questo drammatico contesto sociale nacque il “cangaco”: alcuni si ribellavano ad una vita fatta di stenti e sofferenze e si davano alla macchia. Come i briganti, infatti, i “cangaceiros” erano ribelli individuali. Le loro azioni non avevano motivazione sociale, spesso la scelta di vivere come banditi era motivata dalla volontà di vendicare un torto subito da parte di qualche “coronel” o di un loro sgherro. Non disdegnavano, tra l’altro, di mettersi al servizio di qualche “coronel” contro altri o di partecipare a qualcuna delle tante guerre private che si sviluppavano in ragione di antiche faide motivate dalle rivalità tra famiglie (il “sertao” era caratterizzato da una complessa rete di parentele e da forti rivalità tra di esse).
Di fronte ad una vita di stenti e di sopraffazione alcuni sceglievano, quindi, di vivere liberi, imbracciando le armi, abbigliandosi in maniera pittoresca (copricapo a forma di feluca rovesciata e adornato da stelle variopinte, giubba di cuoio e cartucciere a bandoliera incrociate sul petto, revolver, un lungo coltello e fucile, questo era l’abbigliamento e l’armamento tipo del “cangaceiro”). Proprio per questo, nonostante le loro contraddizioni e il fatto di essere non meno violenti e criminali della polizia e degli sgherri dei “coroneis” non disdegnando di taglieggiare gli stessi “sertanjas”, furono subito circondati da un alone di leggenda e di consenso popolare, che determinò il fiorire di una letteratura e di una vera e propria “cultura del cangaco” che dura ancora oggi in varie forme anche se ha conosciuto il suo massimo splendore negli anni ’50 e ’60 con l’uscita di film, libri e dischi ispirati alle loro gesta.
Come tutte le forme di banditismo organizzato il “cangaco” sparì quando il Brasile imboccò con decisione la strada della modernizzazione e mutarono le condizioni economiche e sociali che lo avevano generato.
Contro di esso la repressione da parte dell’esercito e della polizia (che i “cangaceiros” chiamavano con disprezzo “macacos”, scimmie) fu feroce. L’ultima banda di “cangaceiros”, quella del Capitao Virgulino Ferreira detto Lampiao, fu sterminata il 28 luglio del 1938 ad Angico una località montagnosa dello stato di Alagoas. Le teste dei “cangaceiros” furono tagliate dai corpi ancora vivi e messe in recipienti pieni di alcol di canna per essere mostrate in tutti i villaggi del “sertao”, come avveniva qualche decennio prima nel Mezzogiorno d’Italia con le teste dei briganti. Rimarranno esposte nel museo antropologico di Salvador de Bahia fino al 1969, quando il governatore di quello Stato le fece pietosamente seppellire. Sul luogo dell’eccidio proprio uno dei loro implacabili cacciatori, il capitano Joao Bezerra, fece erigere delle croci a ricordo.
Ancora oggi, nel moderno e democratico Brasile di Lula, il posto è oggetto di un flusso di visitatori che ripercorrono la loro triste e avventurosa storia. Film, telenovelas e libri con protagonisti i “cangaceiros” sono ancora oggi prodotti in Brasile riscuotendo un grande successo di pubblico che ci vede un pezzo importante della propria giovane storia.
Una storia drammatica, come si vede, parallela a quella del nostro brigantaggio, con una notazione che riteniamo doverosa. Il cranio del brigante Villella, oggetto degli studi del criminologo Lombroso, è ancora custodito nel museo lombrosiano di Torino. Sarebbe ora che si accogliesse l’appello del sindaco di Motta, il comune che diede i natali a Villella, e gli si desse degna e pietosa sepoltura. E che in Calabria e nel Mezzogiorno si guardasse a quella storia valorizzandone i tratti identitari di una lotta disperata contro la modernità, certo, di persone destinate alla sconfitta perché tentavano di mettersi di traverso ai necessari cambiamenti di una società che evolveva, sicuramente, ma non per questo non meno degna di rispetto e di conoscenza.

Bocca antitaliano e antimeridionale…

Giorgio Bocca
Si parla molto del volumetto pubblicato da Rubbettino (“Aspra Calabria”) che riprende una parte di un vecchio libro di Giorgio Bocca uscito nel 1992 (“L’Inferno”).
Gli scritti di Giorgio Bocca, introdotti da una autorevole prefazione di Eugenio Scalfari non ci sorprendono più. Non ci sorprende il tono moralistico, la tendenza manichea tipica di certa cultura azionista a cui Bocca appartiene.
Il Partito d’Azione, che riprendeva una vecchia dicitura mazziniana, fu un’effimera formazione politica protagonista della guerra partigiana, di tendenza laica, radical-democratica e socialista liberale che finì schiacciato dalla presenza di grandi partiti di massa come il PCI, il PSI e la DC.
I suoi uomini erano personalità assai colte che sognavano un’Italia che si mondava dal fascismo ma anche da certi suoi atavici mali morali che elencavano nella sua tendenza alla corruzione, nell’influenza clericale, nella dimensione politicista della sua politica.
I libri di Bocca sono tutti intrisi di questa rabbia di sconfitti politici costretti a vivere in un Paese che li guarda spesso senza comprenderli, diffidente rispetto alla loro tendenza ad ergersi a giudici sulla base di una superiorità etico-morale che pochi sono disponibili a riconoscergli.
Bocca e molti come lui appartengono a quella categoria delle classi dirigenti progressiste che sono portati a scambiare i loro desideri con la realtà, intrisi comunque da un’ansia pedagogica che non li fa amare. Non amano la realtà che li circonda e la declinano con un tono pessimista, odiando la politica che invece con quella realtà deve misurarsi quotidianamente, anche e soprattutto se vuole cambiarla. Anzi, la fatica riformista risulta essere loro detestabile, la scambiano spesso con il compromesso o, peggio, la compromissione.
Sono giustizialisti, nell’accezione che il termine ha assunto negli ultimi anni, perché convinti che il bene sta tutto da una parte (la loro) e il male dall’altra.
La visione che costoro hanno del Mezzogiorno risente di questa tara culturale: lo guardano, lo giudicano, ma non lo comprendono. Spesso scambiano le cause con gli effetti.
Per loro, ad esempio, mafia ed illegalità sono una tara quasi genetica dei meridionali, il frutto stesso del loro sottosviluppo più culturale che economico e sociale. Da qui la loro tendenza a dividere la società meridionale in buoni e cattivi, a rappresentarla solo come lotta tra difensori della legge e dello Stato e delinquenti e mafiosi.
Il parallelo con il Vietnam del Sud sconvolto dalla guerra degli anni ’70 è significativo: nel Sud d’Italia c’è una guerra non la lotta per la legalità che invece è normale in un Paese democratico. Gli USA hanno avuto ed hanno una delle mafie più pericolose del mondo eppure a nessun giornalista americano è venuto mai in mente un paragone con il Vietnam o l’Afghanistan.
Il libro si legge dunque per quello che è: l’ennesima operazione editoriale a cui si presta ora una casa editrice calabrese prestigiosa come “Rubettino” che riprende con la prefazione di Scalfari uno scritto datato: la mafia aspromontana dei sequestri di persona, per esempio, è sparita da tempo proprio grazie alle leggi dello Stato democratico ed alla sua azione repressiva che ha reso non vantaggiose per i sequestratori operazioni di questo genere (a proposito del fatto che la Sud non cambia mai niente).
I mali del Sud e della Calabria restano tanti e grandi ma si possono affrontare con la legge dello Stato, la crescita, come pure sta avvenendo, della sensibilità antimafia e per la legalità che sta interessando anche le regioni meridionali. Il Sud sta lottando e deve essere aiutato, sostenuto nella sua lotta. Intanto va aiutato sul piano dello sviluppo economico, facendo al Sud né più e né meno di quello che si fa al Nord. E invece non avviene ciò, anzi, al contrario. Gioia Tauro, citata nel testo, rischia di diventare l’ennesima speranza delusa con la chiusura del porto, così come lo fu il polo siderurgico ai tempi di Bocca. E la scusa è sempre la stessa: in Calabria c’è la mafia, alimentando il circolo vizioso che vede meno sviluppo, più mafia e la mafia utilizzata per giustificare il mancato sostegno allo sviluppo del Sud.
Per questo il libro di Bocca non mi piace, così come non mi piace anche il dibattito che si è sviluppato attorno ad esso: troppe voci indignate e ipocrite spesso silenti, spesso subalterne a quanto invece si fa e si dice al Nord.
Il grande storico Gaetano Cingari diceva che le grandi testate giornalistiche al Sud scendono, non salgono. Voleva denunciare da una parte la mancanza di una voce meridionale di portata nazionale capace di sostenere lo sforzo di un Mezzogiorno che voleva riscattarsi, ma anche la subalternità della cultura e della intellettualità meridionale a stereotipi confezionati nelle parti più ricche del Paese.
Cingari aveva ragione. Facciamo in modo che questa indignazione, salutare, possa sostenere una politica, non rappresenti solo orgoglio ferito o protesta sterile.
Noi calabresi e meridionali siamo Italia e non altro. Dimostriamolo.

Si può sovrapporre un’etica astratta alla legge ?

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Alcune vicende di questi mesi mi hanno portato a svolgere una riflessione più stringente su di una questione che si può riassumere nella domanda: “esiste un’etica che si sovrappone alla legge ?”, vale a dire, al di là di ciò che i codici stabiliscono essere un reato, c’è un’etica superiore che stabilisce l’illiceità o la non opportunità di alcuni comportamenti soprattutto per quanto riguarda persone che ricoprono ruoli di evidenza pubblica ? I recenti casi di Strauss Khan ma anche quello della ragazza segretaria di circolo del PD dimessa perché scoperta nel suo privato in alcuni filmetti porno (anche se pare che si tratti di una non notizia, perché la ragazza in questione si era dimessa molto prima per altre ragioni), e tanti altri, pongono una questione inedita nel dibattito politico italiano e non solo.
Inedita perché la società della comunicazione, il diffondersi della pratica di pubblicare intercettazioni telefoniche, la tendenza cioè a rendere pubblico anche aspetti assai privati degli uomini e delle donne che hanno ruoli e funzioni pubbliche hanno posto con urgenza il tema.
Non ci si deve nascondere, inoltre, il fatto che la lotta politica fa ricorso ampliamente a questi mezzi e una parte del giornalismo (sia a destra che a sinistra) si presta volentieri a questo meccanismo che è stato efficacemente definito “macchina del fango”.
Ora io credo che la questione vada ricondotta nei limiti di un principio che mi sembra essenziale per chi ha ruoli e funzioni di evidenza pubblica (cioè politici, ma non solo, tutti coloro che hanno responsabilità che li portano a decidere o ad avere influenza sul destino della collettività): chi ha responsabilità di questo genere è tenuto, innanzitutto, a non mentire.
Ciò che infatti rende una donna o un uomo pubblico non credibile non è il suo comportamento privato, che è di per sé insindacabile laddove non commetta specifici reati, ma la sua ipocrisia, il predicar bene e razzolare male. Faccio un esempio: non si può predicare contro divorzio e aborto e poi nel proprio privato essere divorziato o praticare l’aborto; non si può essere per la difesa della famiglia tradizionale e nel proprio privato cercare la compagnia di gay, trans o prostitute; non si può essere contro la pornografia e nel proprio privato acquistare materiale pornografico o praticare la pornografia.
Ciò vale per tutti. Un avvocato, un medico, un insegnante sono giustamente sottoposti, oltre che alla legge, come tutti, anche ad un’etica professionale che impone loro comportamenti conseguenti a non danneggiare in qualsiasi modo le persone che si rivolgono a loro. Nel loro privato possono fare ciò che vogliono in base alle loro convinzioni, gusti e orientamenti, ma nello svolgimento della loro professione sono tenuti a fare in modo che tali convinzioni, gusti ed orientamenti non abbiano alcuna influenza sulla vita e le vicende delle persone con cui hanno a che fare, a cui devono offrire un servizio efficiente, qualificato e soprattutto rispettoso soprattutto di quelle persone le cui convinzioni, gusti ed orientamenti non coincidono con i loro. Allo stesso modo una donna e un uomo pubblica devono tenere un comportamento che sia in linea con la funzione che svolgono e con le cose che proclamano di voler difendere.
In questo senso l’unica etica possibile è quella della responsabilità, che intanto si basa sulla necessità di non mentire, di avere un comportamento coerente con i principi che si sostengono. Nel caso Strauss Khan, ad esempio, questi non ha mai nascosto la sua natura di “libertino” e quindi, atteso che non ha commesso reati, ha tutto il diritto di rientrare nelle sue funzioni e di concorrere alla lotta politica del suo Paese sempre che abbia il consenso necessario. Ciò che è invece inaccettabile è un’etica astratta, senza aggettivi, non si sa stabilita da chi, utile strumento di lotta per eliminare avversari scomodi e magari perpetuare potere e, ipocritamente, comportamenti ancora peggiori.
Il confine tra etica della responsabilità ed etica astratta e senza aggettivi è assai labile ma è in quel confine che spesso si celano le aberrazioni che danno vita alle persecuzioni, ai roghi, alle gogne.
L’etica senza aggettivi è contraria ai principi democratici, visto che la democrazia, non a caso, si regge sul rispetto della legge e basta. Non può far scandalo che un deputato sia gay o ami andare a prostitute, l’importante è che nella sua attività parlamentare non si impegni contro gay e prostitute e anzi ne difenda i diritti di cittadini come tutti gli altri.
E’ l’ipocrisia il male peggiore, da sempre. La stessa ipocrisia che erigeva i roghi per streghe, gay e prostitute ai tempi dell’Inquisizione. Quel tempo è finito, anche se roghi e gogne non sono, purtroppo spariti, anzi.
Roghi di streghe

L’ideologia della SPECTRE…

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Esiste una tendenza antica nella politica, nel giornalismo e più in generale nel mondo culturale italiano e non solo, a cercare la ragione di tanti guai in oscure trame, in complotti orditi da misteriosi personaggi, da occulte cupole di potere, da oscure organizzazioni globali che, come la SPECTRE di James Bond, tramano contro la sicurezza e la pace mondiale.
Intendiamoci, mafia, camorra, ‘ndrangheta, le mafie cinesi, giapponesi, russe e in generale la criminalità organizzata a livello internazionale, certe logge massoniche deviate, il terrorismo internazionale, ecc. sono cose assai concrete, che hanno nome e cognome e costituiscono realmente un pericolo. Sono realtà solide, fatte da persone in carne ed ossa che muovono interessi reali, spesso non divergenti da quelli legali e per questo assai insidiose perché mimetizzate e coperte da situazioni che spesso rendono la lotta contro di esse “non utile”.
Contro di queste, le forze democratiche del mondo combattono conseguendo anche importanti successi.
Altra cosa, invece, è la tendenza di cui parlavo prima: essa rappresenta spesso una copertura ideologica all’incapacità, o peggio, alla non volontà di affrontare con coerenza o continuità un problema. Attribuire tutti i problemi e gli insuccessi ai complotti di forze oscure ed invincibili assomiglia molto al “complotto demo-plutocratico giudaico-massonico” delle dittature nazifasciste degli anni ’20 e ’30 del secolo scorso. Una risposta ideologica ai problemi sociali, la creazione di un nemico che spesso copre i nemici veri consentendo loro, comunque, di continuare a fare allegramente i propri affari.
Ecco perché quando sento parlare di forze occulte, quando sento comizi general-generici contro le mafie, quando si parla senza fare nomi e cognomi, denunciare circostanze precise e concrete, diffido.
Parlare di forze occulte che frenano il cambiamento senza dire quali sono e dove e come operano, è come credere che dietro queste trame, alla fine, ci sia solo il popolare personaggio dei fumetti di Silver, Cattivik o, per i più raffinati, la mitica SPECTRE di 007.
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Il triste destino dei portavoce.

Hans Fritzsche, portavoce di Joseph Gobbels durante il nazismo

Hans Fritzsche, portavoce di Joseph Gobbels durante il nazismo


Forse pochi sanno che uno dei due assolti nel processo di Norimberga fu il popolare speaker del notiziario del Ministero della Propaganda Nazista Hans Fritzsche.
In verità Fritzsche fu processato al posto del suo capo Joseph Goebbels, che si era suicidato subito dopo Hitler nel bunker insieme alla moglie Marta che a sua volta aveva ucciso i suoi sei figli affinché non sopravvivessero in una Germania senza Hitler.
Il povero Fritzsche apparve ai giudici come un povero mentecatto coinvolto in un gioco più grande di lui non meritevole di pagare per colpe non direttamente sue.
Certo, per anni costui aveva rappresentato la voce stessa dell’odioso regime, aveva urlato contro gli ebrei, era stata la voce di uno dei regimi più criminali della storia. Nel processo apparve invece pentito, come se acquisisse solo in quel momento la consapevolezza dell’orrore che aveva esaltato e inneggiato.
Condannarlo in quella sede sarebbe stato eccessivo, perché era non meno colpevole di tanti milioni di tedeschi che il nazismo lo avevano portato al potere e seguito fino al suo tragico epilogo.
Si fece così una valutazione giuridica corretta, quella cioè di perseguire solo coloro che avevano avuto responsabilità soggettive in quell’orrore.
Ma se Fritzsche non era perseguibile giuridicamente lo era certamente da un punto di vista della responsabilità politica. Durante il nazismo era stato un privilegiato, un vero e proprio vip, aveva acquisito tutti i vantaggi della sua posizione, aveva vissuto all’ombra del potere e se ne era sentito orgogliosamente emanazione.
Il portavoce è un privilegiato la cui condizione permane fino a quando il suo datore di lavoro è al potere. Dopo gli risulta difficile riciclarsi, come Fritzsche, che sfuggito al primo processo subì una condanna a nove anni nella Germania orientale per essere nuovamente assolto in base all’emergere delle sue effettive responsabilità che erano puramente ideologiche. Rilasciato morì di cancro pochi mesi dopo.
I portavoce, dunque, una volta che i loro padroni perdono il potere, non hanno, in genere, destino felice. Ma in fondo credo che un po’ se lo devono aspettare e l’importante è che ne siano consapevoli.

Ragazzi, giuro che se sento parlare di rinnovamento chiamo i carabinieri…

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Scelgo questo titolo volutamente provocatorio per cercare di esprimere un concetto che mi sta molto a cuore dopo la “batosta” di domenica scorsa. Dico subito quindi che la sinistra ha bisogno come il pane di un profondo e radicale rinnovamento dei suoi gruppi dirigenti e, soprattutto, di una grande innovazione politica e programmatica.

Tuttavia trovatemi uno in Calabria, in Italia e nel mondo che non dica la stessa cosa con toni enfatici ed apodittici anche tra coloro che di questa batosta sono i principali responsabili.

Si, perché parlare di rinnovamento è la cosa più facile di questo mondo ed è il modo migliore per mantenere tutto esattamente com’è. I più grandi proclamatori di novità sono, in realtà i peggiori conservatori perché intendono il rinnovamento sempre a partire dagli altri, mai da se stessi.

La vicenda calabrese del PD ne rappresenta la plastica dimostrazione: sono mesi che novelli giacobini predicano il rinnovamento, agitano questioni morali e acuiscono le profonde fratture del gruppo dirigente solo ai fini di ritagliarsi un posticino nel sempre più residuo e marginale bacino del PD. Poco importa se molti di questi predicatori sono cresciuti all’ombra di coloro che oggi considerano il male assoluto, se si sono ingrassati con incarichi e prebende o comodi posticini in liste bloccate.

Ma, francamente, del destino di questi sono poco preoccupato perché gli elettori li hanno già giudicati e pesantemente bocciati.

Sono invece preoccupato del fatto che, anche rimuovendoli dai posti che occupano risolveremo solo parte dei nostri problemi. Si tratta di una condizione necessaria ma non sufficiente.

Perché il rinnovamento, quello vero, non riusciremo a farlo se non costruiremo finalmente il PD, vale a dire un partito di massa, inclusivo e capace di promuovere davvero nuove classi dirigenti sul terreno dell’innovazione politica. Un partito che tenga tutti dentro, vecchi e nuovi e promuova davvero i nuovi sulla base della selezione democratica, nel fuoco della battaglia politica consentendo anche all’ultimo dirigente dell’ultimo circolo di poter crescere ed affermarsi senza cooptazioni ma in base alle cose che sa esprimere e sa fare. Perché sulle macerie si è sempre costruito poco, se non nulla. Perché il rinnovamento senza innovazione è solo nuovismo senza contenuti destinato ad essere spazzato via al primo alito di vento. Perché la lotta politica interna ha senso e si motiva se si è portatori di progetti, di proposte, di visioni strategiche che vadano al di là delle pur legittime ambizioni personali.

Rinnovare non significa cooptare in posti di responsabilità qualche ragazzo che serva da vetrina, ma consentire a migliaia di ragazzi di crescere e produrre politica insieme a chi ha maturato esperienza ed anche errori. Così si faceva nei vecchi partiti, così dovremmo fare nei nuovi (dopo averli costruiti, ovviamente).

Il voto di domenica e lunedì ci consegna intanto due problemi grandi quanto una casa: un PD da prefisso telefonico ed un centrosinistra minoritario, marginale e parolaio incapace di porsi come interlocutore credibile e di governo per combattere l’egemonia del centrodestra in questa regione.

Il centrodestra vince perché regge la sua alleanza con l’UDC, alleanza frutto della miopia di quei dirigenti che consentirono a Loiero di ricandidarsi alla guida di una coalizione ormai minoranza in Calabria convinti che la sola gestione del potere regionale fosse sufficiente a farci vincere. Nel “Rendano” di Cosenza ancora non si sono spenti gli echi di una manifestazione convocata dagli strateghi cosentini (gli stessi della sconfitta cosentina, rossanese e sangiovannese) che urlavano “Agazio, sei l’unico candidato possibile” nelle stesse ore in cui Bersani tentava l’interlocuzione con l’UDC che ci avrebbe fatto vincere davvero.

Ora tutto è più difficile, per cui è davvero assurdo dividersi tra chi urla più forte “rinnovamento, rinnovamento”. E’ venuto invece il momento innovare davvero interrogandoci fino in fondo sul come.

 

LA MORTE DI GHEDDAFI…

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La scena del dittatore ucciso, linciato, violato nella sua umanità nell’atto estremo della morte non è giustizia, è solo vendetta. Uccidere o processare il tiranno quando è ormai sconfitto e senza potere appare come un’operazione ipocrita e un tantino vigliacca, che serve a coprire silenzi e complicità precedenti, a mondare coscienze democratiche per troppo tempo distratte o con gli occhi chiusi di fronte all’assoluta banalità del male. Per questo gioire per la morte di Gheddafi mi sembra un atto barbaro così come barbari sono stati i comportamenti in vita di quell’uomo. Perché alla fine anche quel tiranno era soltanto un uomo, un altro terribile prodotto della crudeltà umana. E per la crudeltà umana vale solo la giustizia e, dopo la morte, solo la pietà.

Dopo la giornata di ieri un nuovo Risorgimento è possibile. Grazie Presidente Napolitano

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La giornata del 17 marzo si è chiusa con un grande successo popolare. Milioni di persone hanno affollato, in ogni parte d’Italia, le manifestazioni celebrative dei 150 anni del nostro Stato, segno che questa nostra nazione è viva e vuole restare unita, nonostante i suoi enormi problemi ed una classe dirigente che, eufemisticamente, possiamo definire, non all’altezza della situazione.
Anche la nostra città, la civile, democratica, aperta Cosenza, ha fatto la sua parte e devo dire che mi sento orgoglioso, oggi, di questa mia appartenenza plurale, di essere cosentino, calabrese, meridionale e italiano.
Si, perché l’unità in Italia significa anche questo: l’orgoglio di appartenere allo stesso tempo ad una terra, alla sua storia, alla sua cultura e, allo stesso tempo, ad una comunità ampia dove ognuno porta, con altrettanto orgoglio, una parte di sé.
Non era scontato che ciò avvenisse: questa ricorrenza e gli altri appuntamenti che seguiranno nei prossimi mesi, rischiavano di cadere nel disincanto, nella retorica, nell’ostilità aperta di tanti che, in questo nostro Paese spesso così fazioso, così campanilistico, così “rosicature”, non hanno mancato di far sentire la loro voce.
Merito di un grande Presidente, Giorgio Napolitano, l’aver fatto comprendere, però, che al di là di tutti i nostri problemi, l’Italia viene prima di tutto, e che solo se saremo capaci di restare uniti, di affrontarli insieme, riusciremo a vincere le sfide che abbiamo davanti, provando “orrore per la retorica passatista”.
Ciò non toglie che il nostro è un Paese che rimane troppo diviso, innanzitutto tra Nord e Sud, in una politica in cui gli scontri sono spesso pretestuosi ed ideologici e in cui il senso di responsabilità appare, purtroppo, assai raro.
Il Mezzogiorno, nonostante tutti i suoi problemi, le sue paure in un futuro difficile, ha partecipato con passione, ha rivolto ancora una volta allo Stato la sua domanda di essere parte, finalmente, di una grande nazione, a dispetto di tutte le “padanie” immaginabili e immaginarie.
Napolitano ci ha invitato tutti a guardare al futuro con l’orgoglio di appartenere ad un Paese che rimane grande, nonostante tutto, nonostante noi stessi.
Che a richiamarci a questo sia uno degli ultimi sopravvissuti di una grande stagione politica ed istituzionale della nostra storia repubblicana la dice lunga su una classe dirigente che continua a guardarsi l’ombelico e a litigare come i polli di Renzo.
Tuttavia, qualcosa, ieri, è accaduto: gli italiani di ogni regione e di ogni città hanno dimostrato una maturità straordinaria a dispetto di tutti, hanno fatto apparire le chiacchiere dispensate a piene mani da torme di politici, opinionisti, intellettuali “cassa continua” solo un piccolo, impercettibile brusio.
Forse la possibilità di fare di questo 2011 una occasione per un nuovo Risorgimento di questo Paese è davvero a portata di mano. Ed al Sud possiamo essere, ancora una volta, all’avanguardia e, soprattutto, restarci.

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