1945-2015 – 70 anni di libertà

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Testo dell’intervento tenuto presso l’IIS Pisani-Pizzini di Paola il 23 aprile 2015

Ho riflettuto molto sul titolo da dare all’incontro di oggi a questo mio intervento e l’unico che mi è sembrato adatto è “70 anni di libertà”. Perché è l’unico che mi consente di spiegare a voi ragazzi il significato vero della Resistenza e della Festa della Liberazione.

Perché è la libertà, con tutto quello che ad essa si lega indissolubilmente, l’eredità che ci hanno lasciato i nostri nonni 70 anni fa.

Nonni che allora erano giovani, ragazzi alcuni più piccoli di voi e che furono messi di fronte a scelte terribili, ad assumersi grandi responsabilità.

Ci tornerò sul tema della responsabilità perché anch’esso è centrale per comprendere cosa dobbiamo fare dell’eredità preziosa che ci viene dagli avvenimenti di 70 anni fa. Intanto spiegando cosa accadde e perché.

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Com’è noto l’Italia fu trascinata in guerra dalla dittatura fascista nel giugno del 1940. Mussolini, assistendo alla irresistibile avanzata delle truppe del suo alleato Adolf Hitler che in poco meno di un anno aveva conquistato la Polonia, i Paesi Bassi, la Danimarca, la Norvegia, la Francia, decise di rompere gli indugi e di dichiarare guerra a Francia ed Inghilterra.

Pare che avesse detto: “Mi bastano poche migliaia di morti per sedermi al tavolo della pace e spartirmi il bottino”.

Il problema era che mentre la Germania si preparava alla guerra dal 1932 e si era dotata di un esercito che, all’epoca, era il più potente del mondo, l’Italia era assolutamente impreparata.

In un’epoca in cui prevalevano ormai le armi automatiche e semiautomatiche l’esercito italiano era armato prevalentemente con fucili modello 1891 che erano stati utilizzati durante la prima guerra mondiale. Pochissimi erano gli autocarri e i nostri soldati andavano per lo più a piedi o con i muli. I nostri carri armati, in un epoca in cui la guerra si combatteva soprattutto con i reparti corazzati, erano piccoli e leggeri, e la loro corazza si penetrava a colpi di fucile. Non parliamo poi delle artiglierie, per lo più antiquate, tanto che venivano impiegati ancora cannoni della prima guerra mondiale catturati agli austriaci.

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L’aviazione, un settore in cui l’Italia aveva conosciuto un forte sviluppo durante tutti gli anni Venti e Trenta, era comunque dotata da un numero insufficiente di velivoli che, alla lunga, si sarebbero rivelati non adatti alle esigenze di una guerra moderna.

La marina era ad un livello superiore ma la mancanza del radar e di portaerei la rendevano non competitiva rispetto alla flotta inglese.

Insomma, era facile immaginare come sarebbe finita. Ma Mussolini lo sapeva bene. La sua scommessa era stata una guerra breve e vittoriosa della Germania.

Invece la guerra continuò, per tre anni, tre lunghi e terribili anni.

I nostri soldati conobbero sconfitte dopo sconfitte in Africa, in Grecia, in Iugoslavia, in Russia. Non che non combattessero bene e con coraggio. Ce lo riconobbero anche i nostri avversari. Semplicemente non erano preparati.

Alla lunga anche i potenti tedeschi cominciarono ad apparire meno invincibili. Le grandi sconfitte di El Alamein e di Stalingrado nel 1942 segnarono un punto di svolta. Da allora l’Asse cominciò ad arretrare. L’ingresso degli Stati Uniti con il suo enorme potenziale economico ed industriale, la straordinaria resistenza dell’Unione Sovietica che invece di cedere contrattaccava ed avanzava fecero capire a tutti già agli inizi del 1943 che la guerra con l’alleato germanico era ormai irrimediabilmente perduta. In Italia erano cominciati i bombardamenti aerei sulle nostre città; il cibo era stato razionato, la gente non sapeva di cosa sfamarsi, dilagava la corruzione ed il mercato nero, vale a dire la vendita a prezzo maggiorato di generi di prima necessità.

Gli italiani non ne potevano più di una guerra nella quale erano stati trascinati contro la loro volontà ed a fianco di un alleato che non era mai piaciuto.

Mussolini in quel momento era come un pugile suonato. Ogni volta che si recava da Hitler partiva col proposito di cantargliene quattro, di denunciare le scorrettezze ce i tedeschi commettevano nei nostri confronti nella condotta della guerra, se ne tornava imbambolato dalla chiacchiere del dittatore tedesco che fantasticava su improbabili controffensive e su ancora più fantasiose armi segrete.

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Il 9 luglio le truppe anglo-americane sbarcarono in Sicilia. Il 19 luglio Roma venne bombardata. Tutta l’Italia era sottoposta a bombardamenti continui. Anche in Calabria le bombe caddero su Paola, su Cosenza, su Reggio Calabria. La guerra ormai ce l’avevamo in casa.

Fu in quel momento che il re Vittorio Emanuele III, che fino ad allora aveva consentito a Mussolini ed al fascismo tutto, di abolire il parlamento, i partiti, i sindacati, di perseguitare oppositori ed ebrei, decise di agire.

Utilizzando il pretesto di un voto che metteva in minoranza Mussolini nel Gran Consiglio del Fascismo e che chiedeva di assegnare il comando dell’esercito di nuovo al re, il 25 luglio gli tolse i poteri e lo fece arrestare.

Alla notizia della destituzione di Mussolini tutta l’Italia scese in piazza per festeggiare la fine del fascismo e della guerra. Il ragionamento era semplice: la guerra l’avevano voluta i fascisti e Mussolini, finiti loro finita la guerra. Purtroppo non sarà così.

Nel periodo che va dal 26 luglio all’8 settembre 1943 il re Vittorio Emanuele III e il Governo presieduto dal maresciallo Pietro Badoglio misero in piedi una vera e propria commedia degli equivoci. Pensavano di essere più furbi di tutti, degli americani, degli inglesi e dei tedeschi.

Ai tedeschi chiedevano di mandare più truppe per continuare a combattere al loro fianco mentre trattavano con gli anglo-americani per un armistizio tramite al quale chiedevano condizioni che questi non erano disposti a concedere. Alla fine l’armistizio venne firmato a Cassibile il 3 settembre e reso noto l’8 settembre 1943.

Era facile prevedere che i tedeschi non sarebbero stati contenti dell’abbandono dell’Italia e che avrebbero preso provvedimenti. In effetti Hitler e il comando tedesco, ragionando per semplice logica, avevano predisposto il “piano Alarico” sin dalla caduta di Mussolini, un piano che prevedeva l’occupazione dell’Italia, il disarmo e la deportazione in Germania di tutto l’esercito italiano.

Il re, il governo e lo Stato Maggiore italiano l’8 settembre si preoccuparono invece solo di una cosa: mettersi in salvo lasciando Roma in balia dei tedeschi e rifugiandosi a Brindisi. Fu in questo momento che cominciò la Resistenza, e si comprende anche perché si chiami così.

L’esercito italiano lasciato senza ordini  si sbandò. Alcuni reparti furono disarmati senza sparare un colpo e mandati nei campi di concentramento tedeschi in Germania dove in molti moriranno di fame e per i maltrattamenti.

Altri decisero di imbracciare le armi e difendersi dai tedeschi. E’ accaduto a Porta San Paolo a Roma. E’ accaduto a Cefalonia, nelle isole greche, dove l’intera divisione Aqui decise di non consegnare le armi e resistette per giorni all’attacco tedesco. I sopravvissuti furono in gran parte fucilati, più di 5000 morti.

Il 1943 fu un anno terribile per il nostro Paese. Lo Stato sparì, niente autorità, i governanti  che invece di fare il proprio dovere scappavano. Tanti cercarono soltanto di tornare a casa (c’è un famoso film intitolato appunto “Tutti a casa”) buttando via la divisa e le armi. Tanti decisero di non subire l’ingiustizia e si rifugiarono in montagna dove cominciarono a combattere i tedeschi e gli italiani rimasti fedeli al fascismo ed a Mussolini che Hitler aveva fatto liberare dalla sua prigione sul Gran Sasso per metterlo a capo di uno stato-fantoccio che si reggeva soltanto grazie al sostegno dell’esercito tedesco.

La guerra continuò per altri due anni, mentre le truppe anglo-americane risalivano lentamente l’Italia. Arriveranno a Roma solo il 5 giugno del 1944 ma il fronte italiano era diventato ormai secondario rispetto a quello che si era aperto dopo lo sbarco in Normandia che cominciò proprio il 6 giugno 1944. E gli italiani scelsero di combattere, contro i tedeschi e contro i fascisti che si resero colpevoli dei peggiori crimini contro la popolazione civile.

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Basti pensare che le stragi accertate compiute dai nazi-fascisti in Italia furono 400. Ricordiamo solo quelle più famose, quella delle Fosse Ardeatine, di Marzabotto, di Sant’Angelo di Stazzema. Uomini, donne e bambini uccisi senza alcuna ragione, per odio e rappresaglia verso popolazioni che si consideravano inferiori o ostili. Popolazioni che, nonostante la paura dei tedeschi e dei fascisti continuarono ad aiutare i partigiani, quelli cioè che avevano fatto “parte” contro l’invasore.

Resistenza fu quella di Gennarino Capuozzo, un ragazzino di 12 anni che morì dopo avere lanciato una bomba a mano contro un carro armato tedesco a Napoli durante l’insurrezione della città contro l’occupazione nazista il 27 settembre 1943.

Resistenza fu quella di Salvo d’Acquisto, un vicebrigadiere dei carabinieri che invece di scappare il 23 settembre 1943 scelse di farsi fucilare al posto di alcuni civili rastrellati per rappresaglia di un attentato solo presunto.

Resistenza furono le decine di migliaia di soldati italiani internati nei campi di prigionia tedeschi che, nonostante fosse loro offerto di essere liberati purché si arruolassero nell’esercito fascista che combatteva a fianco dei nazisti, scelsero di restare prigionieri a soffrire la fame e le persecuzioni.

Resistenza furono i migliaia di prigionieri torturati e uccisi, tra cui tantissime donne.

La lettura delle ultime lettere dei condannati a morte della Resistenza, lettere scritte su pezzi di cartone, talvolta su una scatola di sigarette o di fiammiferi, spesso sui muri delle prigioni, ci consegna il quadro semplice e al contempo straziante di un mondo che seppe prendere la strada più difficile ma anche la più giusta.

 

“Carissimi, mamma, papà, fratello sorella e compagni tutti, mi trovo senz’altro a breve distanza dall’esecuzione. Mi sento però calmo e muoio sereno e con l’animo tranquillo. Contento di morire per la nostra causa: il comunismo e per la nostra cara e bella Italia. Il sole risplenderà su noi “domani” perché TUTTI riconosceranno che nulla di male abbiamo fatto noi. Voi siate forti come lo sono io e non disperate. Voglio che voi siate fieri ed orgogliosi del vostro Albuni che sempre vi ha voluto bene”. (Albino Albico, anni 24).

 

“Carissimi genitori, parenti e amici tutti, devo comunicarvi una brutta notizia. Io e Candido, tutt’e due, siamo stati condannati a morte. Fatevi coraggio, noi siamo innocenti. Ci hanno condannati solo perché siamo partigiani. Io sono sempre vicino a voi. Dopo tante vitacce, in montagna, dover morir cosí… Ma, in Paradiso, sarò vicino a mio fratello, con la nonna, e pregherò per tutti voi. Vi sarò sempre vicino, vicino a te, caro papà, vicino a te, mammina. Vado alla morte tranquillo assistito dal Cappellano delle Carceri che, a momenti, deve portarmi la Comunione. Andate poi da lui, vi dirà dove mi avranno seppellito. Pregate per me. Vi chiedo perdono, se vi ho dato dei dispiaceri. Dietro il quadro della Madonna, nella mia stanza, troverete un po’ di denaro. Prendetelo e fate dire una Messa per me. la mia roba, datela ai poveri del paese. Salutatemi il Parroco ed il Teologo, e dite loro che preghino per me. Voi fatevi coraggio. Non mettetevi in pena per me. Sono in Cielo e pregherò per voi. Termino con mandarvi tanti baci e tanti auguri di buon Natale. Io lo passerò in Cielo. Arrivederci in Paradiso. Vostro figlio Armando Viva l’Italia! Viva gli Alpini!” (Armando Amprino, anni 20)

 

“Mamma adorata, quando riceverai la presente sarai già straziata dal dolore. Mamma, muoio fucilato per la mia idea. Non vergognarti di tuo figlio, ma sii fiera di lui. Non piangere Mamma, il mio sangue non si verserà invano e l’Italia sarà di nuovo grande. Da Dita Marasli di Atene potrai avere i particolari sui miei ultimi giorni. Addio Mamma, addio Papà, addio Marisa e tutti i miei cari; muoio per l’Italia. Ricordatevi della donna di cui sopra che tanto ho amata. Ci rivedremo nella gloria celeste. Viva l’Italia libera! Achille” (Achille Barilatti, anni 22)

 

“Cari compagni, ora tocca a noi. Andiamo a raggiungere gli altri tre gloriosi compagni caduti per la salvezza e la gloria d’Italia. Voi sapete il compito che vi tocca. Io muoio, ma l’idea vivrà nel futuro, luminosa, grande e bella. Siamo alla fine di tutti i mali. Questi giorni sono come gli ultimi giorni di vita di un grosso mostro che vuol fare più vittime possibile. Se vivrete, tocca a voi rifare questa povera Italia che è così bella, che ha un sole così caldo, le mamme così buone e le ragazze così care. La mia giovinezza è spezzata ma sono sicuro che servirà da esempio. Sui nostri corpi si farà il grande faro della Libertà” (Giordano Cavestro, 18 anni).

 

Ma Resistenza fu anche quella di uomini che arrivarono alla consapevolezza della responsabilità attraverso un percorso più difficile. Molti, invece, fecero il loro dovere in maniera anonima, semplice. Nascondendo fuggiaschi e perseguitati pur sapendo che andavano incontro a rischi come la prigionia e la morte.

Dunque la Resistenza fu soprattutto una scelta: una scelta non facile perché ciò che accadde tra il 1943 ed il 1945 fu anche guerra civile, guerra tra italiani, giovani contro altri giovani, spesso parenti contro parenti.

Ma le scelte non avevano lo stesso valore, non potevano e non possono averlo. Chi scelse di restare fedele fino alla fine a Mussolini ed al fascismo scelse di combattere per difendere una dittatura e la guerra combattuta in nome di quella dittatura. Una dittatura che si era alleata con un regime criminale, quello nazista, che aveva messo a ferro e fuoco l’Europa e l’Italia e che stavano massacrando scientificamente milioni di persone sulla base della semplice presunzione della propria superiorità razziale. Dall’altra ci furono persone che percorsero, in quel momento, la strada più difficile: esporsi al rischio continuo della morte e della rappresaglia, andando a vivere in montagna, al freddo, senza armi e in lotta contro un nemico agguerrito e preparato. Partendo da questa semplice considerazione non ha senso la retorica sui “vinti” che si è fatta in questi ultimi anni.

Questo non significa che non ci furono eccessi anche dall’altra parte e che la pietà non debba riguardare anche i morti caduti dalla parte sbagliata. Ma la storia ha un senso e per fortuna dà torti e dà ragioni.

Se sono ormai due le generazioni che in Italia non soffrono più la fame, se abbiamo conosciuto 70 anni di pace, di benessere, se oggi tutti possiamo esprimere liberamente le nostre opinioni lo dobbiamo a tutti coloro che, in quel momento, seppero scegliere la parte giusta. In questo senso torna, prepotentemente, il tema a cui accennavo prima, quello della responsabilità.

Arriva inesorabile, nella vita di tutti, il momento della responsabilità.

Quando arriva, statene certi, saprete subito la strada giusta da prendere, la scelta da compiere.

Lì, in quel momento, ci vorrà il coraggio.

(L’episodio del film Il Generale Della Rovere, Bardone, da Wikipedia:

Genova 1944. Emanuele Bardone, è un truffatore, amante del gioco e delle donne. Con la complicità di un sottufficiale tedesco, estorce denaro ai familiari dei detenuti politici, millantando conoscenze influenti presso le autorità nazifasciste e promettendo, in cambio dei soldi, l’interessamento delle autorità per una favorevole soluzione dei loro casi. Con tale attività illecita si procura il denaro per il gioco d’azzardo, che lo divora.
Quando le cose vanno male ricorre a Valeria, una ballerina con la quale vive, per avere prestiti o oggetti da impegnare.

Un giorno però il suo gioco viene scoperto. Una donna, a cui il Bardone aveva chiesto denaro per intercedere a favore del marito, viene a conoscenza che il marito è già stato fucilato e lo denuncia alle autorità. Bardone, una volta arrestato, per alleggerire la sua grave posizione accetta di collaborare con il colonnello Müller, da lui conosciuto casualmente qualche giorno prima, il quale, riscontrata la sua abilità nell’ingannare le persone, gli propone di assumere l’identità del generale Giovanni Braccioforte della Rovere, un importante ufficiale badogliano, ucciso per errore dai soldati tedeschi che, non avendolo riconosciuto, non hanno rispettato la consegna di catturarlo vivo. Egli sarà internato a Milano, nel braccio politico del carcere di San Vittore, con l’incarico di assumere informazioni e di scoprire la vera identità di “Fabrizio”, il capo della Resistenza a cui la Gestapo non è ancora riuscita a dare un nome.

La realtà carceraria, e della stessa Resistenza, con cui il truffatore viene a contatto, lo porta lentamente a riconsiderare i valori della dignità, del coraggio e del patriottismo. Egli rimane profondamente colpito dalla morte di Aristide Banchelli, un partigiano che, piuttosto che rivelare il poco di cui è a conoscenza, preferisce subire la tortura che il suo fisico anziano non è in grado di sopportare, arrivando poi a suicidarsi per il timore di parlare. Una notte infine, dopo la cattura di alcuni partigiani, il falso generale viene mandato, pesto e logoro per ispirare maggiore fiducia, a passare la notte nella stanza dove si trovano una ventina di uomini in attesa di esser fucilati per rappresaglia, a seguito dell’uccisione del federale di Milano, ed i nazisti sanno con certezza che tra loro c’è anche “Fabrizio”.

“Fabrizio” si presenta infatti a colui che crede il generale Della Rovere: ora Bardone dispone dell’informazione che gli garantirebbe, secondo le promesse del colonnello Müller, la libertà, oltre a un premio in denaro (1 milione di lire) ed a un salvacondotto per la Svizzera. Ma, quando Müller gli chiede di rivelargli il suo nome, egli rinuncia a ciò per cui ha sempre lavorato, preferendo condividere la sorte degli uomini che stanno andando a morire piuttosto che tradire colui che, a rischio della vita, combatte nobilmente per la libertà di tutti.

Riscattando in questo modo una vita fatta di umana miseria, Bardone si presenta con dignità al plotone d’esecuzione e muore insieme con altri dieci uomini, tra cui alcuni ebrei, dopo aver pregato Müller di far pervenire alla moglie del vero generale un biglietto di commiato, e, dopo aver rivolto ai suoi compagni un’esortazione a rivolgere i loro estremi pensieri alle loro famiglie ed alla Patria, cade dopo avere gridato “Viva l’Italia!”, e solo in quel momento il colonnello Müller riconosce di avere sbagliato nel giudicarlo).

Perché coraggio non è assenza di paura ma compiere la scelta della responsabilità.

Più grande è il potere più grande sarà la responsabilità.

Quegli uomini e quelle donne seppero assumersela non solo per se e per le loro famiglie ma anche per tutti quelli che vennero dopo. Per voi, per noi.

Per questo motivo dopo 70 anni non dobbiamo cessare neanche un momento di ringraziarli.

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