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QUESTIONE ROM: L’INTEGRAZIONE E’ UN DOVERE SIA PER CHI ARRIVA SIA PER CHI OSPITA.

baracchecampo rom
Diciamoci la verità, per poco non ci è scappato il morto con l’incendio nel “villaggio” ROM sul fiume di Cosenza. Senza contare le condizioni vergognose in cui vivono le persone in quella “favela”, tra sporcizia, topi e il rischio continuo che il fiume se li porti via con un’ondata di piena improvvisa. Oggi apprendiamo del rifiuto dei 60 scampati all’incendio a trasferirsi nella ex scuola “Don Milani” e a voler restare lì, in quelle condizioni degradate. Tutto ciò ci pone di fronte alla domanda: può una città civile consentire che 500-600 persone vivano in quelle condizioni, a rischio della loro stessa incolumità fisica ? Può, nello stesso tempo, accettare la pervicace ostinazione a voler restare in quelle condizioni ? Si può legittimare questa ostinazione, spesso dettata da motivazioni ben poco nobili, con la costruzione di un villaggio (eco, temporaneo o a numero chiuso che sia) che nei fatti diventerà l’ennesimo ghetto ? Massimo Converso, presidente dell’Opera Nomadi, giustamente si batte contro questa soluzione. I villaggi di quel tipo legittimano solo l’evasione scolastica, la volontà di non essere censiti e di occultare attività spesso “utilizzate” come manovalanza a basso costo dalla malavita.
Dovunque l’integrazione è avvenuta quando culture si sono mescolate, tollerandosi ed accettandosi con quella ospite, rinunciando certo, a parte di sé ma per il supremo bene della convivenza e della sicurezza collettive. Il nostro ordinamento, ad esempio, non consente, giustamente, la poligamia o il burka, pur difendendo il diritto di tutti a professare la propria fede.
Se la nostra casa è pericolante e mette in pericolo la nostra sicurezza e quella degli altri il nostro ordinamento prevede, giustamente, l’evacuazione di quella casa anche in deroga al nostro diritto di proprietà su quell’immobile.
Sono regole elementari che tutti, nel nostro territorio, sono tenuti a rispettare. E se persisto nel volerle non rispettare posso essere, legittimamente, invitato ad andar via.
Nel 2007 il “villaggio” sul fiume Crati fu sgombrato e i suoi abitanti, grazie ad un’azione congiunta di Prefettura, Comune, Provincia e Curia furono trasferiti in case reperite (non senza difficoltà) dal Comune e nei comuni dell’hinterland. Non durò molto perché i rom abbandonarono le case e tornarono sul fiume, con alterchi e risse scoppiate tra coloro che volevano comunque accettare le soluzioni offerte e quelli che invece si ostinavano a restare nella baraccopoli. Ci fu anche una polemica, che coinvolse il sottoscritto, che ribadiva la bontà della scelta del 2007, e alcune cosiddette associazioni “antirazziste” che chiedevano l’allestimento di un villaggio perché i rom sono naturalmente “nomadi” e quindi naturalmente portati ad abitare in baracche. Fui preso a male parole anche quando criticai la cosiddetta “scuola del vento” messa in piedi da queste associazioni, una iniziativa che allestiva una scuola per i bambini nella baraccopoli mentre gli scuolabus del Comune continuavano a viaggiare vuoti, nonostante l’impegno degli amministratori e di alcuni dirigenti scolastici di allora di dotare alcuni istituti di una politica di accoglienza e persino di docce per dei bambini che, vivendo all’addiaccio, non potevano certamente essere al massimo dell’igiene (una decisione presa tra le proteste dei genitori dei bambini italiani che inscenarono vivaci manifestazioni). Ma questa è la strada dell’integrazione, difficile, ma senza alternative.
Sarò antico, potrò non essere un esperto di antropologia, ma io continuo a pensare che vivere in una baracca in campi-ghetto, anche se dotati di minimi servizi essenziali, non possa essere un esempio di integrazione. Continuo a pensare che l’integrazione scolastica si svolga nelle scuole, mettendo insieme bambini di diversa cultura ed etnia e sia inaccettabile che possano esistere scuole diverse per bambini diversi. Io continuo a credere che abbia ragione Massimo Converso quando propone di persistere sulla soluzione del 2007 e a rifiutare la logica dei ghetti. Perché a nessuno è consentito di rifiutare le regole del posto in cui vive e pretendere la legittimazione di una illegittimità. Perché integrarsi è un dovere sia per chi arriva sia per chi ospita, sempre.

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